Diseguaglianze e difficoltà applicative della Legge 194
“Ti fanno sentire un’assassina” confessa tristemente F., trentatré anni, una laurea, un master e uno stipendio da cinquecento euro al mese. Nell’Italia in cui troppo spesso non esiste sostegno per la maternità, ha dovuto ricorrere a un’interruzione volontaria di gravidanza (IVG). Una scelta già di per sé dolorosa, trasformata in un calvario. Una volta venuta a conoscenza della gravidanza, F. si era rivolta immediatamente a un consultorio familiare a Sassari, nella speranza di trovare qualcuno che potesse illustrarle i passi da compiere per portare a termine la propria decisione. Si era invece ritrovata catapultata in un’amara realtà, fatta di infinte attese, giudizi sputati in faccia con noncuranza e nessun sostegno psicologico. F. aveva allora deciso di rivolgersi autonomamente a un ospedale della città, scoprendo tuttavia che soltanto due persone in tutta la struttura erano intenzionate a praticare l’IVG. Anche qui, aveva trovato un ambiente ostile; numerosi medici e infermieri avevano cercato di farle cambiare idea, consigliandole di aspettare qualche settimana, di ripensarci. “Ma perché? – si domandava F. – Io sono convinta, piango perché mi dispiace, piango perché ho voluto vederlo o vederla durante l’ecografia ed è stata una botta di amore immenso che scelgo, dolorosamente di terminare. Piango perché a trentatré anni, con laurea, master esperienza all’estero, guadagno cinquecento euro, e lo Stato non dà un centesimo a chi sceglie di fare un figlio da sola. Piango perché trovo che sia un’ingiustizia profonda, dolorosa, ma sì, sono convinta di farlo”. Al quarto giorno dalla scoperta, F. era riuscita finalmente a firmare la liberatoria e dopo essere stata sottoposta a una serie di esami, completamente abbandonata a se stessa e invano alla ricerca di un po’ di comprensione, aveva portato a termine l’IVG.
Ad oggi, F., pur con una ferita non rimarginabile nel cuore, non rimpiange la propria scelta. Quel che la rattrista profondamente è l’aver affrontato questa “via crucis” in totale solitudine per via di un’assenza dello Stato, ipocrita nella difesa del diritto alla vita ma pronto a girarsi di spalle non appena si tratti di tutelare un diritto espressamente riconosciuto alla donna dalla Legge n. 194 del 1978, solo in quanto distante dal paradigma della “famiglia tradizionale”, retaggio dell’onnipresente influenza della morale cattolica sui meccanismi dello Stato laico.
Come garantire dunque un equo bilanciamento tra il diritto della donna a interrompere una gravidanza indesiderata e la possibilità di un medico di sottrarsi ad alcuni obblighi di legge per motivi etici o religiosi? E fino a che punto l’etica e la morale possono condizionare l’esercizio della professione medica?
Appare essenziale innanzitutto ricordare che la stessa Legge n. 194/1978, all’Articolo 9, riconosce espressamente il diritto all’obiezione di coscienza, prevedendo che: “Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione”.
La medesima legge prevede poi che l’obiezione di coscienza possa essere revocata e che non possa essere invocata “quando il proprio intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo”.
A chiusura della disposizione vi è un inciso significativo, il quale specifica che: ”Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenute in ogni caso ad assicurare che l’interruzione volontaria di gravidanza si possa svolgere”. Il punto è di notevole importanza, in quanto sancisce chiaramente che l’obiezione deve riguardare il singolo medico e non l’intera struttura ospedaliera, che non può dunque rifiutarsi “in blocco” di effettuare l’IVG. “Le Regioni – prosegue la norma – devono controllare e garantire l’attuazione del diritto all’aborto anche attraverso la mobilità del personale”. Dunque, come più volte sottolineato anche dalla Dott.ssa Kustermann durante l’incontro sul tema dell’obiezione di coscienza organizzato dai GD di Zona 1 giovedì scorso, la legge n. 194/1978 contiene già in sé tutte le tutele necessarie a garantire un equo bilanciamento tra il diritto all’IVG e la possibilità di obiettare.
Il problema reale, tuttavia, è che il dettato normativo si rivela spesso “lettera morta”. Invero, nonostante i dati definitivi relativi agli anni 2014 e 2015 sull’attuazione della Legge n. 194/1978, contenuti in una relazione trasmessa al parlamento nel dicembre 2016, rivelino una diminuzione del numero degli aborti e dei tempi di attesa per sottoporsi all’IGV, analizzando in maniera più approfondita il quadro di riferimento complessivo ci si accorge immediatamente come la situazione sia disomogenea nella varie aree del Paese, con picchi di obiettori fino al 90% in alcune regioni del Meridione. Peraltro, pur essendo indubbio che nel 2014 le quote di obiettori e non obiettori si siano stabilizzate, resta comunque allarmante il fatto che la media dei medici obiettori abbia ormai raggiunto la percentuale del 70,7%, contro una media del 58,7% nel 2005. Appare quindi ingiustificato l’ottimismo ostentato dal ministro Lorenzin sul punto, ribadendo che “il numero dei non obiettori nelle strutture ospedaliere sembra congruo rispetto alle IVG effettuate”.
Secondo la Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione della legge 194 (Laiga), infatti, l’Italia è tra gli ultimi Paesi in Europa per tutela della salute delle donne che vogliono abortire, con una media, appunto, del 70% di ginecologi obiettori e otto regioni in cui tale percentuale oscilla tra l’80% e il 90% (tra le altre, Molise, Campania, Lazio, Basilicata e Sicilia). Percentuali che, secondo la Laiga, pongono l’Italia quasi ai livelli di Paesi in cui l’aborto è vietato, come Irlanda e Polonia, e ben lontana da Paesi come la Francia, dove l’obiezione di coscienza si attesta intorno al 7%, il Regno Unito dove è al 10%, o i Paesi scandinavi, in cui l’obiezione di coscienza è vietata per legge.
Ulteriori statistiche rivelano che nel 2014, a livello nazionale, il numero totale delle strutture che hanno effettuato IVG corrisponde solo al 59,6% del totale delle strutture con reparto di ostetricia e ginecologia, percentuale che scende drasticamente al di sotto del 30% a livello regionale. Il che è palesemente in contrasto con il dettato della Legge n. 194/1978, ove, come si è visto in precedenza, il diritto di obiezione è consentito solo ai singoli medici e non ad intere strutture ospedaliere.
Al di là quindi dei meri dati numerici, appare evidente come il diritto delle donne a ricorrere all’IVG spesso non sia assolutamente garantito nei fatti e, aspetto ancor più iniquo, ove garantito, resti comunque fortemente condizionato da variabili quali il luogo di nascita e il contesto culturale e socio-economico in cui la donna si trova a crescere, con crescenti difficoltà soprattutto per le donne straniere e immigrate. Il tutto in palese violazione dell’Articolo 3 della nostra Costituzione, che sancisce il diritto a un’eguaglianza non soltanto formale ma anche e soprattutto sostanziale.
Sul punto, appare illuminante l’esperienza di S. che, non essendo intenzionata a portare avanti una gravidanza, aveva deciso di optare per l’assunzione della pillola abortiva, soluzione più sicura e meno invasiva rispetto all’intervento chirurgico. Sin da subito si erano manifestati i primi problemi, avendo scoperto che, in tutta Roma, un unico ospedale somministrava la pillola abortiva. Un solo ospedale, in tutta la Capitale, e a sole tre persone al giorno; non viene difficile parlare di impossibilità nei fatti dell’esercizio di un diritto. S. si era così recata con il suo ragazzo al reparto dell’ospedale, collocato al piano seminterrato e in condizioni fatiscenti, con “tubi a vista, incrostazioni e infiltrazioni ovunque”, a voler ricordare alle donne che, decidendo di togliere una vita, non avrebbero certo dovuto aspettarsi un trattamento dignitoso e umano al pari di altre pazienti. Dopo varie vicissitudini burocratiche, in cui S. veniva per diverse volte invitata a tornare a casa, a riflettere sulla propria scelta o a rivolgersi ad un diverso ufficio, l’intervento veniva fissato nel limite dei tre mesi per mancanza di posto. “Tanto non fa alcuna differenza”, avevano osservato i medici, con una noncuranza che mette i brividi. Appare infatti alquanto sconcertante che dei professionisti del settore sanitario non abbiano avuto la sensibilità di comprendere che, a livello psicologico, “un mese in più in cui un bambino ti cresce dentro, in cui il tuo corpo cambia, in cui senti la vita nella tua vita fa un’enorme differenza”. S., per non aspettare, decideva così di rivolgersi a un altro ospedale; il più vicino, in cui si potesse trovare personale disposto a somministrare la pillola abortiva si trovava in provincia di Pisa, in un’altra regione, quasi che nascere in una parte d’Italia piuttosto che in un’altra possa rappresentare un motivo ragionevole per garantire dei diritti in più o in meno a una cittadina. S., dunque, per esercitare il proprio diritto, era stata costretta a fare la spola tra Roma e la Toscana, a vedere acuito il dolore per la propria decisione dall’indignazione e dalla rabbia. “E se non avessi avuto un uomo accanto, pronto ad accompagnarmi in Toscana? Se non avessi avuto un’auto, o i soldi per il treno e la benzina? Se fossi stata ignorante, o una straniera, che non conosce lingua e burocrazia? Se non avessi avuto una famiglia aperta, pronta a sostenermi in ogni caso?”.
Tutto questo si chiede ancora oggi S. che, a distanza di anni, porta dentro di sé il senso di colpa di una scelta difficile e l’onta della “lettera scarlatta” apposta sulla sua persona.
Appare dunque evidente come il Sistema Sanitario Nazionale, nelle sue varie articolazioni territoriali, si stia rivelando sovente incapace di gestire la corretta applicazione della Legge n. 194/1978. In alcune regioni, la situazione è talmente allarmante al punto che alcuni ospedali sono stati costretti a bandire concorsi riservati a ginecologi non obiettori di coscienza.
Esempio paradigmatico è rappresentato dal caso della regione Lazio, in cui, per evitare che il dettato della legge n. 194/1978 venisse costantemente disatteso, il governatore Nicola Zingaretti nel novembre del 2015 aveva deciso di bandire un concorso per l’assunzione di soli ginecologi non obiettori di coscienza, suscitando un vespaio di polemiche proprio perché, qualora i medici assunti avessero poi deciso di cambiare opinione e diventare obiettori, avrebbero rischiato il licenziamento o la mobilità. E se è indubbiamente vero che interferire nella libera scelta di un individuo, seppur medico, rappresenta una violazione di un diritto costituzionalmente garantito, che l’obiezione di coscienza stessa è un diritto riconosciuto e che basterebbe applicare in maniera corretta la legge n. 194/1978 per garantirne l’equo bilanciamento con l’IVG, è altresì innegabile che si dovrebbero stabilire dei criteri oggettivi in grado di assicurare concretamente l’eguale applicazione della legge nelle varie strutture sanitarie dislocate su tutto il territorio nazionale.
Una soluzione potrebbe essere quella, già proposta in Parlamento dalla stessa Laiga, di garantire che in ogni struttura sanitaria pubblica almeno il 50% dei medici non sia obiettore di coscienza, dando così concreta applicazione a quel criterio di mobilità del personale e di reclutamento differenziato già sancito dalla Legge n. 194/1978.
È quanto mai impellente riaffermare con forza la possibilità di esercitare un diritto già compiutamente sancito a livello legislativo ma sovente calpestato e reso sterile nell’indifferenza dei molti.