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Recentemente, le problematiche legate all’immigrazione e al terrorismo hanno lasciato riemergere le criticità riguardanti il sistema di sicurezza europeo. Alcuni Stati, compresa l’Italia, hanno paventato la possibilità di un nuovo progetto di sicurezza che garantisca all’Unione un esercito comune per affrontare le future iniziative militari.

Già negli anni Cinquanta, in realtà, il ministro francese Pleven propose ad Italia e Germania di costituire un esercito per respingere la potenziale invasione sovietica dell’Europa. Il piano – che allora fu denominato Comunità Europea di Difesa – non venne però mai attuato, anche e soprattutto per le perplessità in merito dell’opinione pubblica francese, la quale non vedeva di buon occhio il riarmo della nazione tedesca.

A molti anni dal tentativo, però, l’Europa sembra essere nuovamente interessata a sviluppare una collaborazione in ambito comunitario per giungere (finalmente) all’obiettivo sfiorato quasi settant’anni or sono. Dopo una lunga fase di studio promossa dall’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini, l’11 dicembre 2017 ventitré Stati membri dell’Unione Europea hanno sottoscritto l’atto istitutivo della PeSCo (in italiano, Cooperazione strutturale permanente) che – negli intenti – rivoluzionerà il sistema di sicurezza europeo. L’obiettivo della PeSCo è infatti quello di «ottimizzare le risorse disponibili e migliorare l’efficacia complessiva del sistema», ma l’auspicio dei ventitré ministri firmatari è che la cooperazione rappresenti il primo passo per la creazione di un esercito unico europeo.

Le continue esternazioni del presidente degli Stati Uniti Donald Trump circa la Nato (ed il suo auspicato smantellamento) e gli ingenti costi da affrontare per garantire la sicurezza dei singoli Stati europei ha reso l’idea dell’esercito comunitario l’unica strada nei fatti percorribile per tutelare gli interessi militari dell’Unione.

Basti pensare che uno studio dello IAI, Istituto Affari Internazionali, quantifica in 20,6 miliardi di euro annui il potenziale risparmio conseguibile in caso di integrazione in ambito di difesa militare. Ad oggi, invece, nel settore sembrano dilagare inutili duplicazioni e sprechi: gli Stati europei, ad esempio, dispongono di poco più di 17 mila carri armati di ben 37 tipi diversi, mentre gli Stati Uniti ne utilizzano 27’500, ma di soli nove modelli.

La minaccia agli interessi comunitari non proviene solo da Occidente, con la colorita politica estera del nuovo governo americano, ma anche e soprattutto dalla Federazione Russa, la cui propaganda ha più volte sfacciatamente e pericolosamente influenzato la politica interna di altri Stati.

A questi rischi si aggiungono poi le criticità scaturenti dai flussi migratori e dalla criminalità organizzata: nel primo caso, un controllo unificato dei confini, accompagnato dalla possibilità di dotarsi di strutture europee permanenti sul territorio, faciliterebbe di molto l’identificazione e l’equa distribuzione dei soggetti migranti tra tutti i Paesi europei, mentre nel secondo caso un’azione di polizia unificata in ambito comunitario rappresenterebbe uno strumento essenziale per sconfiggere la criminalità organizzata e bloccare il traffico di droga che attraversa gli Stati membri.

Tuttavia, il fattore sicuramente più importante riguarda i risvolti politici di un esercito europeo: le forze armate europee, infatti, riuscirebbero finalmente a sradicare quel senso d’impotenza proprio dei cittadini comunitari – i quali troppe volte hanno assistito inermi all’incapacità dell’Europa di rispondere alle crisi internazionali che così spesso hanno colpito territori distanti anche poche centinaia di chilometri da noi.

  Luca Loiero

Redazione GD

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