di Marianna Campanardi
Ho appuntamento con Amedeo davanti al teatro Palladium, nel cuore della Garbatella, lo storico quartiere “rosso” e resistente di Roma. Mentre lo aspetto mi guardo un po’ intorno, passeggiando tra le case costruite negli Anni Venti, pensate per essere popolari e oggi casa di una comunità tra le più coese e attive della città. Quando arriva, Amedeo mi accompagna dall’altra parte della piazza, alla Biblioteca Moby Dick: uno spazio che, mi racconta, è stato riconquistato grazie alla determinazione della comunità e ad un investimento della Regione Lazio e che è poi diventato un bellissimo hub e spazio culturale, pieno di ragazzi che studiano e partecipano a iniziative.
Al bar di fronte conosco anche Alessandra Aluigi, assessora alle Politiche sociali, per la formazione e di genere dell’VIII Municipio, anche lei giovane, la prima che io conosca a nominare esplicitamente nella sua delega il tema LGBT. Ci sediamo e comincio a chiacchierare con Amedeo.
– Tu hai iniziato a fare politica tramite i collettivi e i centri sociali del tuo quartiere, ed è con loro che hai condotto la tua battaglia per il Municipio. Tutt’ora non fai parte di un partito, ma sei in coalizione col PD. Adesso che sei amministratore, quindi rappresentante delle istituzioni, come vivi il rapporto con queste organizzazioni autonome?
Questi corpi hanno un’importanza decisiva in una città come Roma, dove c’è una grandissima debolezza nel rapporto col territorio, specialmente nel contesto dei Municipi che, rispetto a un Comune, godono di pochissima autonomia giurisdizionale, pratica e – nota dolente – economica. Questo costringe ad avere un continuo confronto con l’associazionismo, col terzo settore, con le realtà di base: le esperienze di cui ho fatto parte (come il CSOA La Strada) sono fondamentali per l’elaborazione politica e la vita democratica di un territorio. Non possiamo realizzare la nostra visione della città senza una co-progettazione con chi fa attivismo, ma per farlo serve cedere sovranità. Una pratica che per le istituzioni è spesso difficile.
– Ed è quello che avete fatto durante il commissariamento?
Esatto. Quando nel 2017 il nostro ex Presidente 5 Stelle Paolo Pace si è dimesso passando a Fratelli d’Italia, il nostro Municipio è stato commissariato da Virginia Raggi. A quel punto, in un momento di totale abbandono, il nostro lavoro è stato proprio quello di creare assemblee popolari nei nostri quartieri, spingendo le persone a “riprendersi” il Municipio. Un bell’esempio di questo è stata la Consulta delle Donne.
– Periferie abbandonate: come leggi gli episodi di Torre Maura, Casal Bruciato? Cosa vedi nel tuo pezzo di città?
Il discorso va su diversi piani. C’è un classismo diffuso nella lettura della città, che non fa i conti con i bisogni reali di inclusione di chi vive dentro una metropoli. Ti faccio un esempio: il mio territorio tiene insieme pezzi di centro storico e di periferie geografiche, ma il mio concetto di periferia è slegato dalla semplice collocazione spaziale di un posto. Ci sono bisogni che arrivano da dove non te lo aspetteresti, cioè da parti di città anche centrali, tutt’altro che marginali: parliamo di famiglie monoreddito che avrebbero bisogno di un sostegno da parte del Comune, parliamo di negozi e attività economiche del “centro” che stanno fallendo, parliamo di persone che si sentono sole a prescindere da dove risiedono.
Un altro elemento è il fatto che a Roma lo sviluppo della città non è stato parallelo allo sviluppo dei servizi per i cittadini, che sono spesso quindi lasciati a se stessi.
– E allora è vero quello che si dice delle periferie, che ormai la popolazione è stanca e sta virando a destra, corteggiata dai gruppi fascisti?
Non proprio, buona parte del racconto mediatico intorno a questi luoghi è artefatto e banale: le periferie sono luoghi complessi come è complesso il centro, sono luoghi con esperienze straordinarie di solidarietà e di cittadinanza attiva, ma anche di grandi contraddizioni. È in periferia che è più facile costruire artificialmente una narrazione di assenza totale delle istituzioni, di rivendicazione identitaria e reazionaria: le proteste di Torre Maura sono state in parte costruite artefattamente dalle organizzazioni neofasciste che proprio da quella narrazione di degrado avevano tanto da guadagnare, e che quindi l’hanno fomentata. Poi certo, il problema di fondo c’è, ed è un problema di egemonia culturale della destra che sta avanzando, e che si muove in modo molto più compatto di noi. I loro slogan sono rassicuranti, costruiscono nemici invisibili e sempre esterni: l’immigrato, l’Europa, le banche, i “poteri forti”.
– Ma ci sono degli antidoti?
Ci sono degli anticorpi. Salvini gode tantissimo di un’immagine di capo che si è costruito grazie a una continua disintermediazione con le persone: noi dobbiamo allora puntare proprio a costruire a salvaguardare i luoghi dell’intermediazione democratica e della solidarietà. In periferia la sinistra è sinistra se è utile a qualcosa: è utile se costruisce scuole e mense popolari, ambulatori, comitati, se promuove il dibattito pubblico nel territorio, se si prende cura delle relazioni umane, che sono il presupposto democratico del vivere insieme.
– Tu sei stato educatore di strada per tanti anni: che significato ha avuto per te insegnare “dal basso”?
Nel 2008, al centro sociale La Strada, sono stato tra i fondatori della scuola popolare Piero Bruno, che è stata un’esperienza determinante per me e per un bel collettivo di persone che negli anni ha continuato a riproporre il tema dell’educazione di strada, popolare, e che ha portato i suoi frutti: adesso di scuole popolari ce ne sono tante, e sono fondamentali per il contrasto alla dispersione scolastica perché aiutano a costruire una comunità che si pone il problema dell’educazione accessibile e del rapporto intergenerazionale. La scuola non è più autoreferenziale, ma diventa uno strumento di emancipazione per un intero territorio e parlando al di fuori di se stessa produce senso.
– Tu sei stato uno degli animatori della carovana per Kobane, lo sforzo collettivo di tanti attivisti italiani per aiutare la città assediata dall’Isis in Rojava. Cosa possiamo imparare politicamente dai curdi? Cosa ci lascia Orso, il combattente italiano caduto in Siria mentre lottava contro l’Isis?
Orso ci lascia una grande responsabilità. Non ho conosciuto lui, ma ho incontrato tanti altri combattenti che sono partiti per il Kurdistan per partecipare alla battaglia contro Daesh (lo Stato Islamico, ndr) e alla rivoluzione del Confederalismo Democratico promossa dal popolo curdo. È una responsabilità politica che dobbiamo sentire come occidentali che danno spesso per scontati alcuni diritti conquistati, e come individui, come esseri umani, che nella propria vita quotidiana, nella propria etica personale dovrebbero fare propri i valori della pace, del femminismo, del rispetto per le altre culture, e difendere gli spazi di comunità. Noi per la battaglia curda possiamo fare due cose: la prima è esserci, perché quella curda è una piccola ma gigantesca rivoluzione che ci parla della dignità di un popolo oppresso da quattro Stati differenti che vuole solo essere riconosciuto e vivere in pace. E perché questo popolo si è caricato il peso di rappresentare in Medioriente i valori occidentali, quindi i nostri, contro la violenza e il fondamentalismo jihadista. La seconda cosa che possiamo fare è approfondire il pensiero di Abdullah Öcalan, che al momento è ancora incarcerato per le sue idee, che ci parla di ecologismo, femminismo, municipalismo, e che in definitiva ha tanto da insegnare a noi occidentali. Perché la nostra idea di Stato-nazione è definitivamente in crisi, complici globalizzazione senza controlli e smaterializzazione dei rapporti sociali. In sostanza: anche lo studio è una forma di lotta, usiamolo contro chi pratica violenza e sopraffazione.