di Federico Corsi
Quest’anno ho avuto l’opportunità di fare un viaggio in Terra Santa dove sono venuto a contatto con una cultura e un mondo decisamente diverso dal nostro. Una diversità umana, con persone disponibili come raramente ho conosciuto.
Nel tempo che ho passato con le famiglie palestinesi ho conosciuto persone piene di gioia ed entusiasmo che non ho trovato in zone di Israele (e a ben pensarci neanche in Italia). E la cosa che mi ha colpito molto è che questa disponibilità provenga da persone che vivono in una situazione non facile. Anche ascoltando le loro testimonianze non ho potuto non sentire una ricchezza interiore.
Testimonianze che spesso riguardano un muro. Un muro che divide Gerusalemme Ovest (sotto la giurisdizione israeliana) e Gerusalemme Est (a maggioranza araba). E per attraversare questo muro c’è un checkpoint che richiede ore per poter essere superato. Ma il muro non taglia solo la città di Gerusalemme. È tutto il territorio ad esser separato da delle barriere fisiche, talvolta una rete o talvolta del filo spinato.
Una seconda differenza è quella dell’impatto ambientale che la società palestinese e quella israeliana hanno sul territorio circostante.
Nei giorni che ho passato lì, e soprattutto nel territorio palestinese o nelle zone di confine, non ho potuto far a meno di notare gli innumerevoli rifiuti ai lati delle strade. Delle vere e proprie discariche a cielo aperto situate persino l’una a pochi metri dall’altra. Per questo ho deciso di scrivere queste mie impressioni, proprio per denunciare questi fatti in modo che un domani i nostri figli non si trovino ad avere territori e mari pieni di plastica. Al che mi sono domandato come avviene lo smaltimento dei rifiuti. E la risposta è semplice: incendiandoli. Questo fa sì che l’aria diventi irrespirabile, nuocendo la salute di bambini e anziani. Ma ad esser colpito è anche il patrimonio artistico e archeologico. Luoghi con un potenziale turistico enorme sono sommersi dalla spazzatura, provocando un circolo vizioso che danneggia le potenzialità economiche e dunque sociali di questi territori.
Il problema è chiaro: per quanto a noi sembri normale e comune, in Terra Santa non esiste la raccolta differenziata. Non la fa Israele, e la cosa ci può sembrare piuttosto strana in quanto si tratta di un paese industrializzato, tecnologicamente avanzato e “occidentalizzato” per certi versi e che non dovrebbe avere difficoltà a recepire un sistema di questo tipo. Si tratta di procedere anche alla sensibilizzazione della popolazione e delle autorità competenti in modo che possano intervenire in questo settore con politiche e normative idonee allo scopo.
Ma la raccolta differenziata non la si fa neanche in Palestina, dove certamente può sembrare che il sistema di raccolta dei rifiuti sia un problema secondario rispetto al tema dell’integrazione e della convivenza. Se è comprensibile voler concedere del tempo ai Paesi in via di sviluppo o sottosviluppati, tale comprensione non è possibile verso Israele.
La comunità internazionale, tuttavia, non è sorda e cieca davanti questa situazione. Sia la Banca Mondiale sia la Commissione Europea sono intervenuti nel tema. Mentre l’Unione Europea ha finanziato progetti di formazione, come sulla costruzione di discariche, la Banca Mondiale, sin dal 2000, ha istituito progetti per lo smaltimento dei rifiuti.
Spero quindi che nei prossimi anni oltre al risolversi della situazione palestinese, si riesca a risolvere anche il problema dei rifiuti in questo territorio ponendo questa tematica al centro del di un dibattito non solo politico. Sarebbe un primo piccolo passo per un paese come questo affinché due Paesi così ricchi di storia e di tradizioni possano insieme sviluppare una maggiore integrazione possibile. E chissà che forse – ma questa è evidentemente un’utopia – non sia proprio questa tematica che riesca ad avvicinare questi due popoli così da costruire un primo punto di riflessione e di azione in comune.