di Diego Canaletti
La situazione in medio-oriente si è molto scaldata. L’attenzione dell’opinione pubblica si è certamente rivolta alla regione dopo che gli Stati Uniti hanno ucciso con un attacco il generale delle forze Quds, Suleimani, ma bisogna dire che sono mesi che la situazione è caotica.
Nel tardo pomeriggio del 5 gennaio, Teheran ha affermato che intende abbandonare l’accordo sul nucleare iraniano siglato nel 2015 da Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, Germania e dall’Alto rappresentante per gli Affari Esteri e la politica di sicurezza dell’Unione Europea.
Quest’accordo limita la quantità di uranio arricchito che l’Iran può ottenere dalle proprie centrali e che può essere potenzialmente impiegato per la costruzione di un ordigno nucleare.
Ma come si è arrivato a questo punto? Cosa prevedeva l’accordo? Beh, ce li avete sei minuti?
L’Amministrazione Obama
L’Iran accetta di sedersi al tavolo delle trattative perché non può fare altrimenti. Gli Stati Uniti, sotto l’amministrazione Obama e Hillary Clinton come Segretario di Stato, riescono ad imporre in sede ONU delle sanzioni economiche e lavorare con i propri partner internazionali per dismettere quote maggiori del greggio iraniano, colpendone massicciamente l’economia. L’inflazione nel Paese supera il 40%, mentre l’esportazione di barili passa ad un solo milione al giorno dai due milioni e mezzo, provocando una perdita di 80 miliardi di dollari al giorno.
Con l’elezione di Hassan Rouhani Presidente della Repubblica, gli Stati Uniti utilizzano un canale diplomatico in Oman per invitare e cominciare a negoziare una soluzione diplomatica alla crisi.
Joint Plan of Action
Si tratta di un accordo di partenza che avrebbe dovuto portare ad una soluzione definitiva già nelle intenzioni. Non a caso era previsto, tra le sue clausole, una durata di soli sei mesi. Tuttavia, i negoziati successivi hanno richiesto più tempo e perciò le Parti hanno sempre concordato una proroga.
Ai sensi dell’accordo, l’Iran doveva fermare la costruzione di nuove centrifughe necessarie all’ottenimento dell’uranio arricchito. Tuttavia, manteneva la possibilità di continuare ad arricchire il proprio uranio ad una percentuale insufficiente per l’ottenimento di un’arma nucleare. Al contempo, il totale di carburante nucleare in mano al Paese sarebbe stato congelato. Le strutture nucleari venivano poi sottoposte ad ispezioni anche quotidiane con la possibilità di ottenere le registrazioni video.
I Paesi occidentali, dal canto loro, avevano concordato la riduzione delle sanzioni sul Paese con un pacchetto di aiuti di sette miliardi di dollari nei sei mesi originariamente previsti in cui l’accordo sarebbe stato in vigore e permisero l’accesso ad oltre quattro miliardi di valuta estera detenuta in banche estere e che fino a quel momento non era stato possibile utilizzare. Il gruppo si impegnò anche a ridurre le sanzioni sul commercio che potevano riguardare il settore petrolchimico, dei componenti dell’aviazione o automobilistico. Tuttavia, le sanzioni sul petrolio e sul settore bancario rimasero in vigore sotto il Joint Plan of Action. A novembre del 2014, il Segretario di Stato, John Kerry, affermò che tutti i punti di questo deal erano stati raggiunti e rispettati.
Framework Deal
Dal marzo all’aprile del 2015, le parti negoziarono un accordo definito negli aspetti tecnici e che sarebbe stato integrato, per le tempistiche, da un altro accordo del giugno dello stesso anno. Quest’accordo preliminare è divenuto famoso nell’opinione pubblica come Framework Deal e fu siglato il 2 aprile.
L’Iran concordò di:
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Ridurre per dieci anni il numero di centrifughe da 19mila a 6104, di cui 5060 dedicate all’arricchimento dell’uranio;
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L’arricchimento dell’uranio sarebbe stato permesso per quindici anni, ma ad una percentuale utile per l’uso civile degli impianti nucleari ma non sufficiente alla creazione di una bomba;
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Le scorte di uranio arricchito in possesso del Paese passavano da 10mila chilogrammi a 300 chilogrammi;
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Venne poi vietata la costruzione di nuove strutture per l’arricchimento dell’uranio e fu decisa la sospensione del reattore di Fordow;
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Il Paese avrebbe poi dovuto consentire agli ispettori dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, agli ispettori dell’ONU, visite presso tutte le strutture dichiarate, per assicurarsi che nessuna stesse seguendo un programma nucleare-militare. All’AIEA doveva essere garantito l’accesso alle strutture entro 24 giorni dalla richiesta. Un impedimento in tal senso avrebbe costituito la violazione dell’accordo e il ripristino delle sanzioni.
Stati Uniti e Unione Europea dichiararono che avrebbero alleggerito le proprie sanzioni solo dopo le valutazioni degli ispettori dell’ONU. Le sanzioni imposte dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU sarebbero invece state rimosse dopo solo dopo che l’Iran avesse completato gli accordi nucleari.
Sotto queste norme, il tempo necessario all’Iran per dotarsi di un’arma nucleare aumentava ad un anno dai precedenti due-tre mesi. L’aumento del lasso di tempo necessario implicava che la comunità internazionale avesse il tempo di reagire al mancato rispetto dell’accordo costituendo un disincentivo dal prendere in considerazione misure per la costruzione di un arsenale atomico.
Sotto queste norme, il tempo necessario all’Iran per dotarsi di un’arma nucleare aumentava ad un anno dai precedenti due-tre mesi. L’aumento del lasso di tempo necessario implicava che la comunità internazionale avesse il tempo di reagire al mancato rispetto dell’accordo costituendo un disincentivo dal prendere in considerazione misure per la costruzione di un arsenale atomico.
Joint Comprehensive Plan of Action
Quest’ultimo accordo venne firmato dopo una discussione che si concentrò sulle tempistiche e i modi in cui il gruppo P5+1 (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Regno Unito, Germania) avrebbe alleviato le sanzioni economiche. In particolare, il Presidente Obama, in una conferenza con il corpo diplomatico statunitense, affermò che i punti da limare nel negoziato dovevano essere due.
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La durata della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che adottava il Joint Comprehensive Plan of Action, con la conseguente rimozione delle sanzioni adottate nell’ambito nucleare.
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L’inclusione di norme sulla durata degli embarghi alla vendita da parte iraniana di armi convenzionali e tecnologia balistica. Secondo gli Stati Uniti, questi embarghi dovevano durare il più lungo possibile; l’Iran, da parte sua, sosteneva che il fermo sulla vendita di armi convenzionali andasse rimosso assieme alle altre sanzioni in quanto era stato applicato nell’ambito della controversia sul proprio nucleare.
L’accordo venne siglato il 14 luglio 2015. Secondo le previsioni, nei dieci giorni successivi sarebbe stato inviato al Consiglio di Sicurezza e la sua codifica sarebbe stata successiva alla certificazione dell’AIEA del rispetto delle norme. Se la Repubblica Islamica, invece, avesse violato i termini dell’accordo, le sanzioni sarebbero state ripristinate entro sessantacinque giorni. L’embargo sulla vendita di armi convenzionali fu considerato un capitolo a parte e sarebbe stato revocato entro cinque anni, mentre l’embargo sulla vendita di missili entro otto anni.
Il Consiglio di Sicurezza approvò la risoluzione il 20 luglio 2015. Le sue conseguenze legali riguardavano solamente le sanzioni imposte dal Consiglio di Sicurezza stesso e non le sanzioni emesse dagli Stati Uniti o dall’Unione Europea.
Negli Stati Uniti l’accordo venne firmato dal Presidente e considerato come un atto esecutivo, aggirando in questo modo la norma costituzionale che impone che il Senato dovesse approvare con maggioranza dei due terzi la ratifica del trattato. Il dibattito vide il Partito Democratico supportare l’accordo e il Partito Repubblicano rigettarlo in toto. I due schieramenti si stavano preparando alle elezioni presidenziali e anche questo Trattato fu oggetto di campagna elettorale. I conservatori, nella loro posizione, ricevettero man forte anche dai sondaggi negli Swing State come Pennsylvania, Ohio e Florida in cui il 60% degli intervistati si disse contrario a questo accordo.
L’Amministrazione Trump
Durante la campagna elettorale, Trump criticò più e più volte questo accordo. Perciò, quando decise di recedere dal trattato nel maggio del 2018 erano pochi ad esserne sorpresi. Per Trump l’accordo era uno dei “più stupidi” mai firmati, perché, diminuiva la sicurezza degli Stati Uniti e degli alleati, portava la regione ad una corsa agli armamenti e non conteneva alcun riferimento alla crisi dello Yemen o alla Corea del Nord, che si rifornisce di greggio iraniano.
Contestualmente, l’Amministrazione ha cominciato ad imporre sempre più sanzioni per colpire l’economia iraniana, con la Banca Mondiale che ha pronosticato contrazioni del PIL del 9% e un tasso di inflazione vicino al 40%. Tuttavia, Trump ha sempre ritenuto necessario un (nuovo) accordo e ha sempre proposto al governo iraniano dei nuovi negoziati con cui avrebbe sospeso le sanzioni.
Le difficoltà economiche hanno portato il Paese ad assumere un atteggiamento aggressivo nella regione. Quest’estate una nave britannica è stata sequestrata dalle Guardie della Rivoluzione, con il plauso del Parlamento iraniano. Un drone americano è stato abbattuto e non è chiaro se stesse sorvolando le acque internazionali oppure il territorio iraniano. Lo stesso Trump aveva ordinato di attaccare in risposta ad una base iraniana per poi cancellarne l’implementazione. Petroliere a largo dell’Oman e degli Emirati Arabi Uniti sono state colpite da mine e gli Stati Uniti hanno indicato come responsabile l’Iran, sebbene quest’ultimo abbia sempre negato. Un centro petrolifero saudita è stato bombardato e mai rivendicato, sebbene Washington e Riad abbiano puntato il dito verso Teheran. E lo stesso governo iraniano, ogni sessanta giorni, ha cominciato l’arricchimento dell’uranio che gli era precedentemente proibito.
La deadline successiva sarebbe caduta il 5 gennaio. Prima che Suleimani venisse ucciso, gli analisti avevano pronosticato un annuncio riguardante un altro arricchimento dell’uranio. Ma dopo i fatti del 3 gennaio era ormai palese che il Paese islamico avrebbe aumentato la propria aggressività uscendo definitivamente dall’accordo, come è poi avvenuto.
Sarà interessante vedere come reagirà la comunità internazionale. Da una parte vedremo il comportamento di una Angela Merkel indebolita, dall’altra sarà la prima crisi internazionale da quando Boris Johnson è il Primo Ministro britannico. Ne vedremo. Se belle o brutte ce lo dirà solo lo scorrere delle ore.