di Giuseppe Pietro Guglielmo Pepe
Qual è il ruolo dell’arte? Potrebbe essere questo il tema di quest’articolo. Una domanda che richiede una risposta difficilmente esauribile nello spazio concessomi.
Cercherò dunque di circoscrivere l’ambito per ridurre l’articolo a come, secondo un mio personale parere, si dovrebbe porre la politica e il suo continuo dibattito all’interno del mondo artistico.
L’arte è stata spesso criticata per la visione della realtà che offre a chi la guarda magari perché priva di quella narrazione che i governanti volevano ora imporre, ora suggerire, ai governati. I motivi di questo scostamento di visioni sono sia di tipo formale – come l’artista raffigura il soggetto dell’opera – sia legati al suo significato intrinseco, apparentemente non visibile.
Non possiamo nascondere che la critica più antica sia quella formale e di ciò ne abbiamo un esempio perfetto: il busto di Nefertiti. Quest’opera, circa del 1345 a. C., conservata al Neues Museum di Berlino, rappresenta la regina egizia in tutta la sua eleganza e bellezza con una “vitalità” che lasciò stupefatto lo stesso archeologo Ludwig Borchardt, presente al momento della scoperta. Studi recenti della storica britannica Bettany Hughes hanno dimostrato che quel busto cela al suo interno un’altra figura coperta da uno strato di malta raffigurante una donna più anziana e appesantita. Possiamo solo immaginare le motivazioni di queste modifiche ma ci è concesso pensare che al primo busto furono fatte tante critiche dal committente, che l’opera venne rispedita nel laboratorio dello scultore di corte Tutmose dove venne effettivamente ritrovato più di tremila anni dopo la sua realizzazione.
Avvicinandoci ai nostri tempi, abbandonando l’antichità, un esempio di forte critica a un’opera famosa furono le nozze di Cana realizzato da Paolo Caliari detto il Veronese nel 1563. Questa enorme tela venne commissionata per il refettorio benedettino sull’isola di San Giorgio Maggiore ed ebbe un enorme successo ma non rappresentava altro che un espediente per rappresentare la realtà festosa e spettacolare della nobiltà veneziana. Quest’opera, ritenute dalla Chiesa sconveniente e ingiustificata, insieme a quelle successive, portarono il Veronese davanti alla Sacra Inquisizione a cui l’artista disse “Noi pittori ci prendiamo le licenze che si prendono i poeti e i matti…e se c’è dello spazio libero sulla tela, io lo adorno di figure”.
Divertente è il fatto che quest’opera ai nostri giorni sia stata usata come sfondo della sigla di “the New Pope” di Paolo Sorrentino e che quest’ultima sia stata definita “Offensiva e ingiustificata” dal patriarca di Venezia. Le ragioni sono molto semplici ovvero che quello che succede davanti all’opera del Veronese, alcune suore danzanti davanti a un crocefisso fluorescente, siano un’immagine sconveniente davanti a un’opera sacra. Il collegamento e l’intento di Sorrentino sono però lapalissiani nel momento in cui si conosce la storia dell’opera e le critiche che furono mosse ai tempi, simili a quelle che oggi vengono mosse nei confronti del regista napoletano.
Da questi pochi esempi capiamo quanto nel corso del tempo l’arte abbia subito dei rimaneggiamenti o sia stata criticata per non essere in linea con il proprio tempo. L’accusa effettiva che si può muovere nei confronti dei due artisti citati è quella semplicemente di aver mostrato nelle proprie opere la realtà. Le vere fattezze di una regina considerata una divinità e un banchetto di nozze dell’epoca.
Gli artisti attingono a piene mani dalla realtà, è la loro principale fonte d’ispirazione e spesso anche il loro oggetto di critica. L’opera artistica in ogni epoca può esprimersi liberamente e l’artefice è libero di prendersi “le licenze che i prendono i poeti e i matti” senza per questo dover essere censurato dalla politica o dalla società.
La critica rivolta all’arte è sempre ammissibile, purché non comporti l’eliminazione dell’opera. Tuttavia, bisogna fare attenzione a non confondere la critica all’opera con quella che si vuole muovere alla società rappresentata in essa.
A questo proposito Stendhal, sapendo che le vicende raccontate dal suo libro “Il rosso e il nero” sarebbero state oggetto di critica, scrive in uno dei capitoli:
Un romanzo è uno specchio che passa per una via maestra e ora riflette al vostro occhio l’azzurro dei cieli ora il fango dei pantani. E l’uomo che porta lo specchio nella sua gerla sarà da voi accusato di essere immorale! Lo specchio mostra il fango e voi accusate lo specchio! Accusate piuttosto la strada in cui è il pantano, e più ancora l’ispettore stradale che lascia ristagnar l’acqua e il formarsi di pozze.
È chiaro che “l’uomo che porta lo specchio” rappresenti lo scrittore, figura che nel nostro caso può essere perfettamente l’artista, e che la strada non è altro che la realtà raccontata dall’opera.
Capiamo dunque, da quanto scritto, che ci voglia una certa sensibilità e attenzione per giudicare l’arte poiché essa come prodotto individuale e soggettivo dell’artista che è capace di suscitare una singolare e particolare reazione in ognuno di noi, non può essere oggetto della politica che fa suo invece un processo di sintesi, contrario all’atto artistico contemporaneo.
Per questo motivo un partito non dovrebbe avere come oggetto del suo dibattito un prodotto artistico perché, semplicemente, non sarebbe in grado di controllare le reazioni provocate dall’arte nei singoli. Semplificherebbe i significati di un’opera in una sintesi inaccettabile e irrispettosa sia nei confronti dell’artista sia nei confronti dei fruitori dell’oggetto criticato che, anche nella stessa componente politica, potrebbero avere pensieri e sentimenti diversi.
È un terreno insidioso. Lo so. Ma in politica è lecito pensare che qualcuno abbia ragione e altri hanno torto.
Nell’arte invece hanno tutti ragione.