di Manuele Oliveri
Tra le tante parole nuove che abbiamo imparato nel 2020 (congiunti, ristori, assembramento…), ce n’è una che si è diffusa talmente tanto da diventare insopportabile: resilienza. Stando alla Treccani, questa parola, in senso figurato, indica “la capacità di reagire di fronte a traumi, difficoltà, ecc.”, possiamo affermare che non sia una delle voci in cui la Treccani dà il meglio di sé.
Sappiamo che in natura l’evoluzione lavora principalmente per adattamento: le specie che sopravvivono sono quelle che meglio sanno adattarsi all’ambiente in cui vivono. La prima cellula che ha sviluppato la capacità di percepire la luce, oltre a passare sicuramente per la più cool del quartiere, ha avuto un vantaggio tale da rendere questa capacità obbligatoria per sopravvivere. E così anche noi ci siamo abbastanza abituati a tutto ciò che ci circonda. Non so voi, ma la notizia del secondo lockdown (pardon, “la zona rossa”) mi ha fatto molto meno effetto di quanto non fosse stato a marzo, proprio perché, ormai, ci siamo abituati.
È innegabile che per certi aspetti questo sia un bene: sapersi adattare ai cambiamenti spesso è necessario, perché chi non ci riesce viene lasciato indietro perdendo il gioco dell’evoluzione. È vera però anche un’altra cosa: una specie sopravvive finché è in grado di evolversi per adattarsi, ma il successo senza precedenti (per quanto ne sappiamo) dell’essere umano è dovuto innanzitutto alla sua capacità di cambiare l’ambiente circostante. A un certo punto qualcuno si è stufato di adattarsi alle disgrazie che la natura gli mandava contro e ha pensato: “Sapete che c’è? Non sarebbe divertentissimo se iniziassimo a coltivare delle piante e costruire degli insediamenti intorno alle suddette piante? Magari potremmo anche allevare degli animali, così non dovremmo andare a caccia per catturarli!” Certo, il pensiero non sarà stato così elaborato ma avete capito il punto. Ed è a questo punto che il mondo è cambiato davvero.
Che c’entra tutto questo discorso con quello che stiamo vivendo? C’entra perché ormai ci siamo abituati alle restrizioni con cui conviviamo da circa nove mesi, e forse è arrivato il momento di chiederci cosa succederà quando inizieremo a reagire. Il vaccino, sicuramente la nostra arma più potente, è ormai in rampa di lancio, e una luce in fondo al tunnel si inizia a intravedere (mi perdonerà l’Economist per essermi appropriato della loro copertina, la trovo estremamente appropriata per questo contesto).
“Cosa diremo quando ci guarderemo indietro?”. Ammetto di avere un debole per la retorica. In politica questo è quasi sempre un male perché le peggiori intenzioni nella storia sono state nascoste dietro tante belle parole. Penso comunque di poter dire con margine di certezza che quando, mercoledì scorso, Angela Merkel ha pronunciato queste parole avesse in mente solo il bene della Germania e dell’Europa. Cosa diremo quando finalmente usciremo dal tunnel e riusciremo “a riveder le stelle”?
La risposta è che probabilmente avremo un’infinità di cose a cui pensare: perdureranno la profondissima crisi economica e i conflitti sociali e internazionali che questa pandemia ha iniziato o esacerbato. Non è da sottostimare un’altra crisi, quella della poca fiducia delle istituzioni a cui la gestione della COVID sembra aver dato un ulteriore colpo. È comprensibile che in un momento come questo si pensi solo a uscirne, ma chi padroneggia meglio l’arte della politica sono coloro che sono capaci di risolvere i problemi prima ancora che si presentino e non andremo da nessuna parte se non saremo consapevoli che una volta sconfitto il virus non diventeremo migliori per qualche forma di Grazia divina, ma solo con uno sforzo enorme. E il primo settore a dover fare questo sforzo è la politica, che tanto per cambiare anche in questi giorni si sta impegnando al massimo per dare sfoggio della sua parte peggiore. I dibattiti su rimpasti di governo e cabine di regia (e questa vuole essere una critica a tutte le parti in causa) sono abbastanza penosi in situazioni normali, figuriamoci adesso.
Ci sono una serie di realtà che la politica deve imparare a gestire. Per prima cosa, la pandemia ci insegna che l’abitudine di devastare gli ecosistemi può avere delle brutte conseguenze e non sembra essere una lezione scontata come dovrebbe essere, un primo punto potrebbe quindi essere questo: facciamo più attenzione alla “salute circolare” (prendo in prestito il termine dalla dott.ssa Capua), ricordiamoci che il bene che facciamo al resto del pianeta lo facciamo anche a noi stessi.
Secondo elemento: abbiamo imparato cosa vuol dir veder crollare le proprie certezze da un giorno all’altro: questa è stata una scoperta abbastanza nuova per l’Occidente, che non viveva qualcosa di simile da almeno ottant’anni. Siamo vulnerabili, nonostante tutto, e sarà bene ricordarselo la prossima volta che la politica sarà ostaggio di litigi sui bilanci o chissà cosa.
Terzo punto, connesso con il secondo: il crollo delle certezze ha riguardato molte cose che davamo per scontate come la compagnia dei nostri cari, amici, parenti, compagnie di vita, la possibilità di andare a fare due passi al parco, la colazione al bar (uno dei più grandi piaceri terreni). Per il futuro, ricordatevi che queste cose possono sparire da un momento all’altro, meglio tenersele strette.
Credo che questo sia più o meno tutto quello che avevo da dire, forse anche qualcosa di troppo, per cui vorrei salutarvi con un messaggio incoraggiante. Per quanto sia e sia stata dura, una via d’uscita adesso si inizia a intravedere. Ed ecco che si presenta una quarta lezione: c’è sempre qualcosa dall’altra parte.