di Livia Karoui
A pochi giorni dall’annuncio del ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan, il 14 aprile 2021, i talebani avevano iniziato un’offensiva che li avrebbe portati a controllare il Paese nel giro di poche settimane. Mentre il presidente Ashraf Ghani fuggiva in Uzbekistan, i leader talebani e combattenti armati sono entrati nel palazzo presidenziale, prendendo controllo del centro politico del Paese (Al-Jazeera, 15/08/2021). Mentre i Talebani avanzavano e il governo dell’Afghanistan continuava la sua ritirata, nelle strade di Kabul si è diffuso il caos: migliaia di persone sono corse a ritirare i loro risparmi dalle banche per poi fuggire all’aeroporto, in un ultimo tentativo di fuga. Coloro che non si possono permettere di lasciare il Paese e avevano cercato rifugio a Kabul, in quella che era allora l’ultima roccaforte del governo, si sono riversati nei parchi e spazi aperti della città. L’aeroporto, che il Presidente Biden aveva promesso di mantenere sicuro e aperto, è stato chiuso ai voli commerciali nella giornata del 16 agosto a causa del caos creatosi a causa della folla che ha letteralmente invaso le piste di decollo e atterraggio, come dimostrato dalle immagini e video, anche cruenti, che sono circolate nelle scorse ore. Il funzionamento è stato garantito solo per l’evacuazione del personale diplomatico e militare degli Stati Uniti e degli altri Paesi occidentali (Voli commerciali da Kabul cancellati a causa del caos 16 agosto 2021). Poiché la situazione all’aeroporto di Kabul è in costante cambiamento, si segnala che già nella tarda serata di ieri, fonti del Dipartimento di Stato hanno affermato che i colloqui con i talebani sia a Doha che a Kabul sono stati costruttivi per mantenere l’aeroporto di Kabul sicuro e aperto. Nel mentre, però, i collaboratori della NATO e centinai di attiviste donne, che hanno combattuto per offrire un futuro migliore alle ragazze afghane, attendono, impauriti, di vedere se saranno in grado di salire su un volo prima che i Talebani bussino alla loro porta.
In breve, quello che avrebbe dovuto essere un ritiro sicuro e ordinato degli Stati Uniti e dei suoi alleati si è trasformato in una caotica ritirata.
Come si è arrivati a questo punto?
Guardando le immagini di Kabul in questi giorni, non possiamo fare a meno di chiederci come siamo arrivati qui. Com’è possibile che vent’anni di interventi e addestramento degli Stati Uniti e della NATO si siano sgretolati nel giro di poche settimane, di pochi giorni? Dopo tutto, non sono passati nemmeno due mesi da quando il Presidente Biden ha annunciato che: “le truppe afgane hanno 300.000 soldati ben equipaggiati – ben equipaggiati quanto qualsiasi esercito nel mondo – e una forza aerea contro qualcosa come 75.000 talebani. [Che I talebani prendano il sopravvento], non è inevitabile”. Ha proseguito insistendo sul fatto che “il governo e la leadership afgani devono unirsi. Hanno chiaramente la capacità di sostenere il governo sul posto” e che “noi [gli Stati Uniti] non stiamo andando via, senza sostenere la loro capacità di mantenere quella forza” (President Biden. Press release, 8 luglio 2021). Queste affermazioni non sembrano altro che una vana speranza senza fondamento mentre assistiamo a un’evacuazione mal riuscita e a un fallimento nel garantire la sicurezza e il benessere della popolazione dell’Afghanistan.
O forse, dopo tutto, tutto è andato secondo i piani.
Se guardiamo all’Accordo per portare la pace in Afghanistan, firmato il 29 febbraio 2020 a Doha tra gli Stati Uniti di Donald Trump e i talebani, diventa evidente che la principale preoccupazione degli Stati Uniti non era più garantire una parvenza di regime di diritti umani all’interno della nazione al momento del ritiro né tanto meno la costruzione di uno Stato afghano, con un esercito addestrato, come auspicato da Barack Obama, bensì limitare il focus dell’operazione militare ad evitare che il gruppo talebano, “non permettarà a nessuno dei suoi membri, altri individui o gruppi, compresa al-Qaeda, di utilizzare il suolo dell’Afghanistan per minacciare la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi alleati” (Agreement to build peace in Afghanistan, 29 febbraio 2020). Per quanto riguarda la situazione interna, gli Stati Uniti hanno chiesto che i talebani si impegnino in negoziati con le loro controparti afgane per costruire un governo islamico dopo il ritiro degli alleati. In breve, nonostante il presidente Biden abbia dichiarato di non fidarsi dei talebani, ha mantenuto il trattato con loro, un trattato che promette di rimuovere le sanzioni sui membri talebani e di liberarne i prigionieri politici. Un trattato che non menziona nemmeno i diritti umani, tanto meno i diritti delle donne. A dettare le condizioni del trattato non è stata Washington, che al momento delle negoziazioni di Doha si trovava in debole posizione negoziale. All’Amministrazione Trump era ormai evidente che la guerra non poteva essere vinta, perché figlia di una serie di strategie incoerenti e confuse portate avanti da Barack Obama e George W. Bush. Questo risulta particolarmente evidente se pensiamo che nel 2001, gli Stati Uniti guidati all’epoca da Bush Jr. ebbero la facoltà di scegliere con chi sedersi al tavolo delle trattative, escludendo i talebani.
È chiaro, quindi, che siamo arrivati a questo punto perché la missione degli Stati Uniti e altri potenti Paesi occidentali in Afghanistan non aveva nessuno scopo umanitario. Questi Paesi non sono venuti in Afghanistan come messaggeri di pace e giustizia, ma piuttosto come stati con il chiaro obbiettivo di proteggere i propri confini dopo l’11 settembre. In secondo luogo, e ancora più importante, gli Stati occidentali hanno storicamente contribuito alla militarizzazione dell’Afghanistan, provocandone una destabilizzazione costante che è stato il terreno su cui sono nati i talebani.
Tra il 1979 e il 1992, quando l’influenza dell’Unione Sovietica nell’Afghanistan si fece sempre più penetrante su Kabul, gli Stati Uniti incanalarono complessivamente più di 3 miliardi di dollari verso varie fazioni dei mujaheddin, un ammontare del tutto simile a quanto conferito anche da Cina, Iran e Arabia Saudita. Agli Stati si aggiunsero anche fondi conferiti da carità e milionari islamici. Il flusso di denaro, armi, informazioni e droga era gestito interamente dagli Inter-Services Intelligence (ISI) del Pakistan, la cui dimensione era così elevata da raggiungere la nozione di “Stato dentro lo Stato” come espresso da Christian Parenti. Negli anni dell’Amministrazione Reagan, i finanziamenti statunitensi vennero incrementati, raggiungendo, nel 1985, la cifra di 250milioni di dollari l’anno. Fino ad un terzo di questi fondi finirono ai gruppi di mujaheddin più radicali (Parenti, p.32, Weigand 2017).
Nel 1992, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti ritirarono il loro appoggio ai gruppi di ribelli afghani, mentre il governo russo tagliò i fondi al governo filosovietico di Najibullah esistente fino a quel momento, che venne rovesciato poco dopo.
Nel mentre, però, l’operazione del Pakistan, incoraggiata dalla CIA, ha fatto sì che dal 1982 al 1992, 35mila mussulmani radicali provenienti da 40 Paesi diversi si unissero alla lotta contro l’Unione Sovietica e il governo da lei instaurato (Rashid 1999, p.31).
Alla fine della guerra, l’addestramento fornito nei campi Afghani e Pakistani cominciò a creare problemi in più di un senso. Il movimento dei mujaheddin si disintegrò, trasformandosi in signori della guerra che controllavano determinate aree del Paese. Parte dei guerrieri che erano arrivati in Afghanistan dagli altri Paesi tornarono a casa, portandosi con loro gli insegnamenti del pan-islamismo radicale insegnato in quei campi, causando instabilità e problemi in Egitto, Sudan e Yemen.
In Afghanistan, invece, alcuni di questi guerriglieri, distanziandosi dai gruppi di mujaheddin originali, si riorganizzarono sotto il Mullah Omar e nel 1994 fondarono i Talebani, “gli studenti”, seguendo un’ideologia basata su un’interpretazione conservatrice dell’Islam e sul codice morale dei Pashtun, sostenuti dal Pakistan (Weigand 2017). Durante questo periodo, i talebani guadagnarono rapidamente legittimità e fiducia da parte della popolazione, presentandosi come un’alternativa alla politica degli uomini forti che controllava il Paese, e portandoli a conquistare Kabul nel 1996 (Weigand 2017). Sotto il loro governo, implementarono un sistema rigido basato su un’interpretazione conservatrice della Sharia, dove alle donne non era permesso frequentare la scuola o uscire in pubblico da sole, e dove erano diffuse punizioni violente, esecuzioni e violazioni dei diritti umani.
Risulta evidente come il supporto dei Paesi, tra cui gli Stati Uniti, non hanno tenuto conto delle possibili conseguenze che hanno cominciato a riguardare sin da subito l’occidente, come evidente dall’attentato al World Trade Center del 1993 (Parenti, p.33; Rashid, p.32).
Questi catastrofici episodi, risultati di una politica che non considera l’impatto a lungo termine degli interventi occidentali e che considera i paesi mediorientali come semplici campi da gioco delle battaglie dei grandi poteri, dovrebbero suonare una campanella di allarme quando sentiamo argomenti in favore di ulteriori interventi Stati Uniti o della NATO nel Medioriente. Risulta chiaro come l’intervento occidentale abbia alimentato i movimenti di insurrezione, non li ha spenti. L’intervento occidentale non è la soluzione, semmai è una parte importante del problema.
Cosa possiamo fare?
La cosa più importante che potete fare è formare voi stessi. Questo articolo non pretende di spiegare tutto quello che sta succedendo in Afghanistan. Infatti, non graffia nemmeno la superficie. Rimanete attenti e continuate a informarvi sull’Afghanistan, pensando criticamente alla provenienza delle vostre fonti e i programmi che propongono. Quando possibile, cercate di ottenere le vostre informazioni da giornalisti afghani e pagine gestite da persone sul posto, non da media occidentali che potrebbero avere i loro pregiudizi.
La seconda cosa che potete fare, dopo esservi informativi, è continuare a parlare di quello che sta succedendo. Dopo la presa di potere dei talebani e fino alla caduta del loro regime, l’Afghanistan è stato quasi dimenticato. Non possiamo permettere che questo accada di nuovo. Sensibilizzatevi, partecipate alle manifestazioni, firmate petizioni e chiedete al governo di prestare attenzione a ciò che sta accadendo. Richiedete al nostro governo di accettare afghani che sono in pericolo, soprattutto donne, come rifugiati politici. È il minimo che possiamo fare. Un’importante attivista afgana, Mahbooba Serai, la fondatrice dell’Afghan Women’s Network, ha detto che “quello che è successo oggi in Afghanistan riporterà il Paese indietro di 200 anni” e che gli Stati Uniti e i loro alleati dovrebbero vergognarsi di quello che hanno fatto per contribuire a questo evento. Ascoltate e amplificate le voci afgane come quella di Serai, per assicurarvi che siano ascoltate da chi ha il potere di cambiare le cose.
Infine, se siete in grado, donate a gruppi che lavorano in Afghanistan – meglio ancora se sono organizzazioni locali gestite da afghani. Come abbiamo visto chiaramente negli ultimi giorni, l’intervento internazionale si è dimostrato sanguinoso, costoso e inefficiente e non è riuscito a creare pace e prosperità a lungo termine. Al contrario, è diventato chiaro che le soluzioni non dovrebbero arrivare da esperti internazionali.
Questo però non significa che dobbiamo lasciare gli afghani a cavarsela da soli. Per costruire un Afghanistan che sia democratico, equo e pacifico, dobbiamo sostenere gli afghani stessi, che sanno meglio di chiunque altro cosa può essere fatto. Dobbiamo ascoltare gli appelli degli attivisti della società civile che hanno lavorato duramente per decenni e che ora stanno rischiando la loro vita per costruire un Paese migliore. Il nostro obiettivo deve rimanere quello di stare fianco a fianco alla popolazione e sostenerla, facendo pressione sui nostri governi affinché diano sostegno ai gruppi civile che lottano per un Afghanistan pacifico e democratico.
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