di Ilaria Piromalli
In un articolo che ancora fa la sua straordinaria figura, anche perché firmato da uno dei più influenti storici del Medio Oriente, Bernard Lewis, A War of Resolve, in apertura si riporta come:
As they saw it, the Islamic fighters in Afghanistan had defeated and destroyed the mighty Soviet Union. Dealing with the U.S. would be a much easier task.
This was his belief and the source of his resolve. The same message appears in several other statements — that Americans had become soft and pampered, unable or unwilling to stand up and fight. It was a lesson bin Laden extracted from our responses to previous attacks: He expected more of the same. There would be fierce words and perhaps the U.S. would launch a missile or two to some remote places, but there would be little else in terms of retaliation.
It was a natural error. Nothing in his background or his experience would enable him to understand that a major policy change could result from an election.
Per come la vedevano, i combattenti islamici in Afghanistan avevano sconfitto e distrutto la potente Unione Sovietica. Trattare con gli Stati Uniti sarebbe un compito molto più semplice.
Questa era la sua convinzione e la fonte della sua determinazione. Lo stesso messaggio appare in diverse altre dichiarazioni: gli americani erano diventati morbidi e viziati, incapaci o riluttanti di alzarsi in piedi e combattere. È stata una lezione che Bin Laden ha tratto dalle nostre risposte agli attacchi precedenti: si aspettava di più dalla stessa cosa. Ci sarebbero parole feroci e forse gli Stati Uniti lancerebbero un missile o due in alcuni luoghi remoti, ma ci sarebbe poco altro in termini di rappresaglia.
È stato un errore naturale. Nulla nel suo passato o nella sua esperienza gli avrebbe permesso di capire che un importante cambiamento di politica potrebbe derivare da un’elezione.
Lewis è stato uno degli uomini che ha più significativamente contribuito alle azioni di politica estera del Presidente Bush, ed è diventato celebre dopo l’attacco alle Torri Gemelle del 2001. Ironicamente affermava che Osama Bin Laden lo ha reso famoso, ma lo storico di Princeton ha iniziato ben prima la sua produzione scientifica sul Medio Oriente, e fondamentale in tal senso, in base a quanto lui stesso ricorda, è stata un’esperienza a Istanbul durante la quale si è convinto che i governi repressivi ma inefficaci delle regioni dell’area mediorientale fossero un gioco funzionale a spiegare la povertà mai alleviata e giustificare quindi la necessità della tirannia.
È una visione tanto cinica quanto storicamente riconfermata tanto in Europa quanto in ogni luogo in cui le civiltà si sono autodeterminate. E porta a considerazioni differenti.
Ci sono tuttavia tutta una serie di questioni che si connettono allo sviluppo socio-politico-economico dell’Afghanistan, all’interno di un Paese che risente ancora della guerra, non così distante nel tempo, contro l’Unione Sovietica, che ha portato la popolazione a un abbandono massivo dei villaggi a favore delle città, alla fuga dal Paese (1/3 della popolazione circa si è rifugiato all’estero) e al crollo della produzione agricola (anche per via delle mine antiuomo), che insieme all’allevamento costituiscono a tutt’oggi la principale risorsa del Paese, con giacimenti di carbone, gas naturale e petrolio.
Resta un fatto che, in questi giorni, e alla luce della ripresa del potere dei taliban ritorna attuale: in questi anni di presenza militare straniera, e nonostante la democratica elezione del premier Karzai, molti degli osservatori internazionali hanno nutrito seri dubbi su come questi esercitasse effettivamente il controllo nel Paese, in ragione delle aree rimaste sotto l’effettivo potere talebano. E allora, cosa hanno rappresentato 20 anni di presenza straniera?
In un’editoriale aspramente contestato di Angelo Panebianco pubblicato sul Corriere della Sera nel Febbraio 2016, quando l’attenzione era focalizzata tutta sulla Libia e sul ritiro delle truppe americane da quel territorio, il professore criticava l’assenza in Italia di una “cultura della sicurezza”, la sua incapacità di guardare con cognizione di causa al declino politico-militare degli Stati Uniti e di un’Europa “senza traccia” nel riuscire ad assicurare una politica estera al di fuori di quella economica.
La logica è quella della “guerra giusta”, che più che una considerazione su cosa sia meglio fare, è una disputa ideologica che va avanti da anni tra gli studiosi delle Relazioni Internazionali. Se vogliamo, la “guerra giusta” è un po’ come il capitalismo, tutti vogliono superarlo, ma nessuno ha finora trovato una valevole alternativa percorribile. Ciò non ha impedito al professor Panebianco all’epoca di essere accusato di essere un guerrafondaio.
Nell’ultimo periodo mi è capitato di leggere un libro che racconta la rivoluzione che vi è stata nella fisica quantistica: mi riferisco a Helgoland di Carlo Rovelli. Senza dover uscire fuori tema, Rovelli ci racconta come la scoperta più rivoluzionaria dell’ultimo secolo abbia messo in crisi la visione che credevamo di avere del mondo a partire da come guardiamo a ogni singola cosa che ci circonda. Rovelli ci invita a considerare il mondo non come un insieme di singoli elementi, ma come delle relazioni, perchè è l’interconnessione che è sta alla base dell’universo che abitiamo.
Tenete in mente questa considerazione, perché ci tornerà utile più in là.
Rovelli ci invita a considerare il mondo non come un insieme di singoli elementi, ma come delle relazioni, perchè è l’interconnessione che è sta alla base dell’universo che abitiamo
C’è un argomento che negli ultimi anni inizia a trovare spazio e si contrappone, per così dire, all’idea della “guerra giusta”, anche e in virtù dei fallimenti, più o meno evidenti, di esportazione della democrazia. Ha una forte valenza teorico-ideologica, ma un minore rilevanza pratica, banalmente perché non la si è mai visto davvero in atto. E pone una questione fra tutte, qual è il limite che uno Stato ha nell’assicurare un adeguato sviluppo socio-politico a un terzo.
Dato che di teoria ce ne abbiamo messa, e ancora ne metteremo, mi piacerebbe essere sincera sin dall’inizio: io la risposta non ce l’ho su quale sia la cosa più giusta, né leggerete un articolo a favore dell’una o l’altra posizione. E anzi, ammiro chi ostenta la necessità dell’intervento come il sacrosanto diritto ad autodeterminarsi senza la benché minima influenza esterna.
Il dubbio nasce da più questioni: intervenire e non intervenire in Siria ha sortito lo stesso disastroso effetto, che non lascia margine a miglioramenti, almeno nell’immediato. In Libia la caduta di Gheddafi ha lasciato un Paese diviso e preda di scontri interni. Eppure Gheddafi non era sicuramente un sant’uomo. La scelta non è semplice, eppure, in questi casi, ad aiutarci sopraggiunge l’idealismo, che forma l’essenza di un’opinione. Dal canto mio, sono sempre stata combattuta tra un eccesso di pragmatismo e un pacifismo probabilmente fuori tempo massimo, che dubita una furia interventista, per altro non strutturata, molto possa fare in un territorio già a pezzi.
Rimane un dato, i cambiamenti sono lenti, e quelli violenti difficilmente danno gli effetti sperati. Un vulcano può rimanere dormiente per secoli, e ciò non significa che non arrivi il momento dell’eruzione. La domanda è, può essere fermata? E veniamo al dunque.
L’Afghanistan, il crocevia tra Occidente e Oriente
La scelta dell’articolo del Prof. Panebianco sull’intervento in Libia non è casuale. Corre infatti un parallelo tra le vicende libiche e quelle afghane, non solo in virtù di ciò che un ritiro lascia, ma in particolare perché l’Afghanistan moderno, al pari della Libia, è il disegno di un territorio non determinatosi da sé ma in quell’intreccio di eventi che all’interno delle guerre anglo-afghane (il cd Grande Gioco) ha portato al trono, dopo la Prima sconfitta britannica, l’emiro Abdur Rahman Khan, a partire dal quale governo sono stati britannici e russi a definire i confini del territorio che a tutt’oggi conosciamo.
Le guerre anglo-afghane scoppiano per gli interessi coloniali e commerciali che contrappongono le potenze euroasiatiche all’interno di un Paese che rappresenta lo snodo verso l’Oriente e verso l’India.
Il Regno Unito si muove verso l’Afghanistan già all’inizio dell’Ottocento, guardando intimorito all’espansione di Napoleone, e successivamente alle missioni russe che troppo in là si stavano spingendo sul territorio indiano. Arriverà l’impero britannico durante il Grande Gioco sempre sul punto di vincere, per poi essere sconfitto da una controffensiva costituita da una tenace resistenza afghana, supportata economicamente e militarmente dall’impero russo.
Nel periodo che va da 1880 al 1896 venero definite le linee di confine dell’Afghanistan, a tratti Stato cuscinetto e protettorato, teatro di scontri di potere e di rilevamenti che ne consentono a tutt’oggi la ricostruzione territoriale e geologica. Quello che rimarrà dell’Afghanistan sarà un Paese con un grande senso di revanche nei confronti dell’occupatore straniero, che con la fine della delimitazione territoriale, degli interessi politici e l’inizio della Prima Guerra Mondiale verrà abbandonato.
Abdur muore nel 1901, e a succedergli è il figlio Habibulla, durante il quale governo nel 1907 verrà conclusa la Convenzione anglorussa, in cui entrambe le potenze, inglese e russa, rinunciavano all’influenza sull’Afghanistan: sfortunatamente la Convenzione non entrerà mai in vigore perché l’emiro non notificò mai il suo consenso. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, il governo britannico invita il governo afghano a dichiararsi neutrale, e così sarà, una scelta che non incontrò la benevolenza del popolo, che male aveva visto il mancato intervento a favore della Turchia, per evitarne la sconfitta. Iniziano a sorgere le società segrete, e nel 1919 Habibulla viene assassinato, con ogni probabilità da quei membri della famiglia reale che si opponevano all’influenza britannica.
Amanullah Kan, nipote dell’emiro, succederà al potere: sarà il leader dell’indipendenza afghana, proclamata nel 1919, e aprirà, una volta al potere, a un lungo periodo di modernizzazione sociale, politica ed economica del Paese.
Il Grande Gioco è rilevante per più aspetti: primo fra tutti, la costruzione territoriale dell’Afghanistan, senza tuttavia dimenticare l’interesse imperiale di più potenze per l’estensione verso Oriente e i traffici commerciali. Ma andiamo avanti.
Gli eventi che seguono ci interessano relativamente, se non per due aspetti: l’estromissione del clan dei Mohammedzai con l’inizio delle guerre anglo-afghane lascia una ferita aperta, che non fermerà lo scontro politico e condurrà, nel 1929 alla sottrazione del potere ad Amanullah, riportando il clan al potere. Nonostante una fase di forte riorganizzazione politica, interna ed esterna, infatti, la propaganda dei misoneisti si fece prepotente nel momento in cui Amamullah diede spazio a riforme troppo innovatrici per alcune frange della popolazione, come l’abolizione del velo, la legge elevante l’età del matrimonio, l’imposizione dei vestiti europei, che unite alla forte corruzione e a delle spese eccessive di governo di fronte alla miseria della popolazione, non poterono che incidere negativamente sulla situazione. Il 14 Gennaio del 1929 Amanullah abdica a favore del fratellastro Inayatullah, che a sua volta si il 17 Gennaio si ritirò di fronte a Bacahi Saqqa.
C’è poi un’altra questione. Sul piano territoriale, il disegno dell’Afghanistan moderno voluto dai britannici traccia delle linee confinanti convenienti al protettorato, ma che aprono a una questione a tutt’oggi celebre, quella della Durand Line, alla base del contrasto che perdura ormai da un secolo e mezzo tra Afghanistan e Pakistan, e che vede l’inizio della sua escalation più prepotente nel corso degli anni Trenta del Novecento, quando i pashtun arrivano al potere, inaugurando a una stagione di acceso nazionalismo.
L’instabilità politica e sociale perdurerà in questi anni all’interno del Paese, ma saranno il crollo della monarchia e l’invasione sovietica a rappresentare il corollario degli eventi che credo in qualche modo traccino un filo rosso tra ciò che è stato e ciò che è.