di Giovanni Soda
D’innanzi alla débâcle elettorale del 25 settembre, si sono moltiplicate, con una rapidità comparabile a quella di una colonia di lepri, le analisi della sconfitta e le proposte -più o meno radicali- sulla “ripartenza”. Ciò, oltre ad essere strettamente necessario, è assolutamente razionale, nulla si addice più ad una sconfitta della riorganizzazione delle strategie e del serrare i ranghi.
La geografizzazione del voto
Nel convulso turbinio di opinioni e livori uno dei principali temi sollevati è stato quello dell’incontestabile disaffezione della classe operaia e “medio-bassa” verso il Partito Democratico. La definizione più pregnante, ironica ed incisiva per descrivere il fenomeno che porta le classi abbienti a votare verso sinistra e quelle più indigenti a sostenere partiti sovranisti e conservatori (fenomeno che interessa l’intero Occidente di cui il PD è solo un esempio lampante) è “sinistra delle ZTL”.
Fuori dalle ZTL, però, c’era un mondo anche prima del 26 settembre ma ci siamo resi conto di questa “geografizzazione” del voto solo all’indomani dello spoglio che sanciva, inconfutabilmente, la vittoria della destra. La mappa dei risultati elettorali si presenta demoralizzante: oltre alle vacillanti roccaforti tosco-emiliane il Partito Democratico conquista con fatica i seggi di Milano, Torino e Genova. Se confrontiamo questo risultato con la lista delle grandi metropoli italiane troviamo, come uniche escluse, Napoli -dove trionfano poderosamente i 5 stelle- e Roma -dove vince FdI a causa della pesante ingerenza di Calenda-.
La politica della testimonianza e dell’ascolto
Di fronte all’incontestabile riconoscimento di un problema culturale e di un’oggettiva difficoltà di dialogo fra grandi città e periferia, si è avviata una ricerca sulle forme attraverso cui ricompattare la società e legare insieme gli individui. Una delle soluzioni maggiormente caldeggiate, e più frequentemente ripetute, afferma che sia ora di “ascoltare” ciò che ha da dire la moltitudine di individui che vive al di fuori del proprio contesto di riferimento e di intercettare i desideri delle ampie fasce disagiate della popolazione.
Questa posizione è, per moltissimi versi, giusta e strategicamente opportuna. In effetti, è precisamente questo ciò che è mancato alla sinistra – specialmente a quella italiana – negli ultimi decenni. L’idea è largamente diffusa e condivisa al punto da aver trovato risonanza teorica in un recentissimo libro di Eric Sadin intitolato “Io tiranno. La società digitale e la fine del mondo comune.”
Il filosofo francese trae le conseguenze della sua analisi della contemporanea società informatizzata e identifica, come via attraverso cui risollevare il destino dell’epoca presente, quella che egli battezza «un’imperiosa politica della testimonianza».
In conclusione, suggerisce di ricominciare dall’ascolto del singolo cittadino, vessato da decenni di ingenue dimenticanze, pavida vigliaccheria politica e scoraggiante superbia morale, anima ed agita i progetti di “ripartenza” del Campo Largo-Italia Democratica e Progressista.
Che cos’è, per noi, Engels?
Tuttavia, affinché sia possibile un autentico e veritiero ritorno della sinistra a sinistra è anche necessario non lasciar piombare nell’oblio quella poderosa tradizione socialista (ecco l’aggettivo tanto agognato!) che ci sta alle spalle. L’attenzione ai desideri delle classi meno abbienti e più alienate, in realtà, costituisce, secondo le più squisite disamine critiche di Friedrich Engels, soltanto una delle due metà dell’agire politico. In un suo fulminante pamphlet del 1880 intitolato “Il socialismo dall’utopia alla scienza“, Engels ci ricorda come ben esistesse una classe proletaria prima dell’affermazione della borghesia come egemone ma, al contempo, come questo proletariato fosse assolutamente immaturo e, pertanto, destinato a veder fallire ogni progetto rivoluzionario. Una classe sociale immatura è una classe che non è ancora andata ai ferri corti con le contraddizioni latenti in cui vive, in questa situazione l’unico progetto politico possibile è un progetto utopico e, pertanto, impercorribile. Affinché sia possibile la formulazione di un vero progetto socialista (che Engels chiamava “scientifico”) è necessario che la classe pervenga alla sua autocoscienza, solo quando essa sa cosa è può formulare dei validi progetti politici. È questo il senso dell’affermazione engelsiana «Il socialismo moderno non è altro che il riflesso ideale di questo conflitto reale, il suo ideale rispecchiarsi, in primo luogo, nella testa della classe che sotto di esso direttamente soffre, la classe operaia» (p. 13).
Engels ci sta ricordando che la relazione fra movimento politico (inteso come piano per il mondo e l’avvenire) e classe sociale deve essere, inevitabilmente, dialettica. Ciò significa che deve esserci un doppio movimento, da un lato -si passino i termini che stiamo per utilizzare- dal basso verso l’alto e, al contrario, dall’alto verso il basso. Il che significa, calato nella nostra concreta prassi organizzativa politica odierna, che di fianco ad un ascolto delle classi meno abbienti è necessario, parallelamente, un tentativo pedagogico di carattere culturale che educhi e formi la pubblica opinione sulle storture e le contraddizioni del presente. Inoltre, è precisamente questo carattere dialettico e culturale del socialismo ben fatto a distinguerlo da quelle forme spurie, demagogiche e incomplete che chiamiamo, con la terminologia di oggi, populismo.
La rinascita dei corpi intermedi
Questo compito istruttivo della sinistra ha nel partito e nella presenza territoriale la sua forma più pura e valida. D’altronde, il partito politico organizzato in circoli collocati sul territorio è uno dei leggendari corpi intermedi che si sono progressivamente erosi e svuotati di senso negli ultimi decenni.
Affinché questa ripartenza, l’ennesima degli ultimi decenni, sia efficace, autentica, storicamente pregnante e in grado di offrire una valida opposizione contro gli avversari è cruciale recuperare ed innovare il senso della tradizione che ci sta alle spalle. Solo riponendo in dialogo il Partito -che deve recuperare e ripensare, senza timore, la tradizione che ha alle spalle- con il corpo sociale in un doppio movimento di ascolto del desiderio e formazione delle rivendicazioni è possibile ricreare una speranza. Nessuno, può adempiere a questo compito meglio dei Giovani Democratici, si è già a lungo affermata l’imprescindibile capacità della giovanile di farsi portavoce di una realtà che l’establishment difficilmente vede e di possedere una capacità di comprensione del movimento della realtà, oltre che uno slancio creativo, di altissimo valore. Anche nel contesto che abbiamo trattato la giovanile si dimostra un elemento prezioso: la vicinanza dei suoi membri con gli ambienti della formazione (sia scolastici che universitari fino alle associazioni culturali) li rende la chiave di volta attraverso cui la dialettica tra istituzioni e cittadini mediata dai corpi intermedi e dall’intellighenzia può rinascere.
D’altronde, d’innanzi ad un’epoca sempre più inquietante e ad un moltiplicarsi delle crisi, soltanto dal ricompattamento del corpo sociale e dalla riscoperta della capacità mediatrice della politica può risorgere la fiducia nei tempi a venire, la stella lucente della promessa fatta, la certezza ineluttabile che, prima o poi, usciremo dal fango e vivremo giorni migliori.