ARTICHE?
Se ci venisse chiesto quale sia l’area geopoliticamente più importante del nostro tempo, sicuramente, non ci verrebbe in mente l’Artico: ad oggi, le regioni considerate cruciali nello scacchiere politico internazionale sono quelle dell’area indo – pacifica, l’Est Europa, il Sud America o il Nord Africa, forse, ma difficilmente penseremmo ai territori artici. A dispetto da quanto creduto dal senso comune, negli ultimi anni, però, l’Artico sta acquisendo sempre più importanza, non solo dal punto di vista ambientale, ma anche per il valore economico e strategico di cui le grandi potenze si stanno rendendo conto.
L’ELDORADO DEL XXI SECOLO
“Gruppo di elementi chimici, di numero atomico da 57 a 71, così detti perché inizialmente rintracciati solo in minerali poco frequenti in natura, caratterizzati da notevole somiglianza chimica”: questa è la definizione di terre rare. Detta così, non pare nulla di rilevante, ma le cose prendono una piega diversa quando si scopre a cosa servano effettivamente: quei diciassette elementi chimici sono essenziali per la civiltà globalizzata, utilizzati per superconduttori, magneti, fibre ottiche e alta tecnologia militare. Ma la cosa più importante è che l’Artico ne è pieno, in particolar modo la Groenlandia, così come di molte altre materie prime.
Come sappiamo, la regione è sotto il controllo e la giurisdizione della Danimarca, ma negli ultimi anni le spinte indipendentiste sono state sempre più forti. La Groenlandia negoziò nel 1979 il diritto all’autogoverno, si è dotata di istituzioni democratiche e nel 2009 Copenaghen ha riconosciuto a Nuuk il diritto all’autodeterminazione e il controllo delle proprie risorse: gas, petrolio, zinco, rame, ferro, nichel, rubini, zaffiri, oro, platino, diamanti… tutte eccetto l’uranio, materia ritenuta d’interesse strategico nazionale. Eppure nel 2014, per un solo voto, in Parlamento è passato il via libera all’estrazione ed esportazione d’uranio. La Groenlandia, però, non è ancora uno stato vero e proprio. Copenaghen detiene ancora numerose prerogative di governo e continua a versare un sussidio annuale di 500 milioni di euro, che costituiscono un terzo del PIL groenlandese, un fondo senza il quale le istituzioni locali non potrebbero fare nulla.
Che cosa vuol dire questo? Che il prezzo della libertà, vale a dire la rinuncia al fondo danese, è l’apertura della cassaforte, la concessione del maggior numero possibile di miniere alle grandi corporation internazionali.
Si sta parlando di un territorio che, secondo la United States Geological Survey, ha un valore di petrolio e gas pari ai 18 trilioni di dollari, l’equivalente dell’intera economia americana. L’Artico custodisce il 40% delle riserve mondiali di combustibili fossili, il 30% di tutte le risorse naturali; anche quelle che Stati Uniti e Unione Europea stanno cercando disperatamente, per assicurarsi il primato mondiale nella produzione di chip e nell’abbassamento delle emissioni.
LA CINA…
Il problema? Il solo paese che comincia a ottenere le concessioni più importanti, al momento, è la Cina: fino a tutto il 2015 non c’è stato nessun investimento cinese in Groenlandia. Nel 2016, è iniziata una massiccia offensiva – complici gli indipendisti al governo – culminata con la scalata della società australiana GME, che punta alla concessione e sfruttamento del più grande complesso minerario del territorio, quello di Kvanefjeld. La Shenghe Resources Holding Ltd di Shangai, già colosso nello sfruttamento di terre rare, ha acquisito il 12,5 per cento della GME, con l’intento di salire fino al 60 per cento delle azioni una volta ottenuto il via libera al cantiere. Gli obiettivi della Cina inquietano non poco, con la gestione d’una miniera politicamente tanto sensibile: si sa che il mercato dell’uranio è ancora il più opaco, difficile da monitorare ed è anche noto che il maggior azionista delle Shenghe è l’Istituto di Stato per l’utilizzo delle risorse minerarie, emanazione del Ministero delle risorse cinese, braccio operativo del regime nelle sue ambizioni geostrategiche nell’Artico.
…LA RUSSIA
Tanto per cambiare, l’altra grande potenza protagonista di quest’area è la Russia: pochi lo sanno, ma la presidenza della Commissione polare della società geografica russa – Ру́сское географи́ческое о́бщество – a Mosca conta più di un ministero. Infatti, è stato proprio l’Artico sovietico a dare l’imprinting all’Artico russo, oggi perno militare, economico e ideologico della dottrina neo – imperiale di Putin. Il primo a rendersi conto dell’opportunità che questa regione avrebbe offerto fu Stalin, quando decise di spostare a Nord – Est il baricentro economico dell’URSS una volta preso il potere: decisivi furono il credo messianico russo secondo cui la salvezza sarebbe un giorno arrivata dalla Siberia, la convinzione che il cuore economico fosse pericolosamente sbilanciato a Ovest e la necessità di mettere finalmente a frutto della difesa, del commercio e del trasporto le vie d’acqua artiche. C’è, inoltre, un altro elemento dell’ossessione artica di Stalin e dell’URSS, che non è strategico, ma strettamente ideologico: il rapporto comunista con la natura. Superare gli ostacoli – le distanze, il freddo, il ghiaccio – per lo sfruttamento economico e materiale si adatta perfettamente alla narrazione rivoluzionaria della scienza vincitrice sul mondo naturale e sulle superstizioni. La natura non esiste, esiste solo l’uomo sociale che la sfrutta per la prosperità collettiva.
Fatto sta che ora i russi considerano l’Artico un gelido giardino di casa, militarizzando e presidiando la zona con soldati addestrati alla guerra bianca, in grado di sopravvivere per mesi senza rifornimenti, assieme a una pista riscaldata a uso di una flottiglia di Mig – 31 e di bombardieri Su – 34. Proprio pochi giorni fa, la Russia ha anche ottenuto la proprietà di buona parte dei fondali dell’Artico centrale: le trivelle per l’estrazione di gas naturale sono pronte e la crucialità di questi territori si è dimostrata, nuovamente, più reale che mai.
GLI U.S.A.
Tanto reale che perfino gli americani hanno deciso di scendere in campo nella battaglia per il Grande Nord. Gli Stati uniti, infatti, sanno di essere costretti a rafforzare il presidio militare nella ragione. Anche perché, oltre a essere un parco giochi delle risorse naturali, c’è una novità, anzi due: la minaccia missilistica cinese e, soprattutto, la capacità balistica dei nord coreani. Questo perché la gittata più breve per i missili sparati dall’Asia sull’America continentale traccerebbero una rotta artica. Se Washington vuole risolvere il problema, allora bisogna sviluppare quell’anima artica che, nella coscienza geografica e nazionale americana, è da decenni presente in nuce nel territorio dell’Alaska e muovere il baricentro della sicurezza. Il gap degli Stati Uniti è clamoroso quando si parla di rompighiaccio nucleari, l’unità di misura con cui si pesano le ambizioni d’una potenza artica. Gli americani ne possiedono tre, di cui due fuori uso e nessuno a propulsione nucleare, contro i quaranta russi, di cui dieci nucleari, sette la Finlandia, sette la Svezia, sei il Canada, quattro la Danimarca, una la Norvegia e tre la Cina, che ne sta costruendo altre tre.
E ORA?
I ghiacci artici si stanno ritirando ma, ormai, è chiaro a tutti che stanno avanzando quelli nazionali. Se, da una parte, è improbabile che un conflitto in larga scala possa sorgere in questi territori, dall’altra l’Artico si sta rivelando un’area su cui abbiamo commesso numerosi errori di sottovalutazione e che ora si mostra per quello che è: un territorio estremamente sensibile non solo dal punto di vista ambientale, ma anche per quelli economici e geopolitici. L’Unione Europea è fuori dalla partita, almeno per il momento, e qualsiasi tipo di iniziativa è lasciata ai singoli paesi membri che, al netto di potenze come la Cina, non sono in grado di giocare un ruolo decisivo in questa nuova corsa al Polo Nord. Quello che è sicuro è che si sentirà parlare ancora di Artico, come e quando è solo questione di tempo.