Stellantis, chi è?
di Andrea Pennacchio
Per capire cos’è rimasto della Fabbrica Italiana Automobili Torino basta fare una passeggiata nei quartieri Mirafiori e Lingotto, o cercare informazioni su Wikipedia e sui principali giornali italiani – controllati dagli stessi Elkann – la sensazione di abbandono, quasi una fuga a Pescara, trapela da ogni dettaglio: una fabbrica rimpicciolita dentro mura sterminate, in cui si producono poche auto costose e la borghesissima 500 elettrica, la barista col marito in cassa integrazione decennale, l’epopea sulla fusione con altre case automobilistiche, la francesizzazione del consiglio d’amministrazione e via dicendo. Andando per definizioni “Stellantis N.V. è una holding multinazionale olandese produttrice di autoveicoli. Nata dalla fusione tra i gruppi Fiat Chrysler Automobiles e PSA, la società ha sede legale ad Amsterdam, sede operativa a Hoofddorp e controlla quattordici marchi automobilistici: Abarth, Alfa Romeo, Chrysler, Citroën, Dodge, DS Automobiles, FIAT, Jeep, Lancia, Maserati, Opel, Peugeot, Ram Trucks e Vauxhall. Il gruppo ha siti produttivi, di proprietà o in joint venture, in ventinove Paesi situati tra Europa, America, Africa e Asia. Nel 2022 è risultato il 29º gruppo al mondo per fatturato nella Fortune Global 500.” Questa naamloze vennootschap (in olandese: società per azioni) è partecipata al 14,4% da ExorN.V., holding finanziaria olandese controllata dalla famiglia Agnelli che comprende anche Iveco, Ferrari, Juventus e i giornali The Economist e del gruppo editoriale Gedi; al 7,2% dalla famiglia Peugeot che nel 2014 per salvare le imprese di famiglia dovettero scendere a patti con lo stato francese (6,2% in Stellantis) e con la Dongfeng Motor Corporation (3,3%), azienda cinese produttrice di automobili nata nel ’69 per volere di Mao Zedong; più altri investitori minori. Se vi sembra un quadro eterogeneo non siete i primi, perché già in passato la famiglia Agnelli adoperò qualsiasi strumento finanziario, normativo e propagandistico per arricchirsi a discapito dei lavoratori: secondo la Cgia di Mestre dal 1977 al 2012 la Fiat ha ottenuto 7,6mld di euro dallo stato italiano, senza tener conto dei miliardi spesi in ammortizzatori sociali, impiegati nella costruzione degli impianti produttivi nel Meridione; al contempo dal ’76 all’86 il 10% della società era posseduto dal fondo sovrano della Libia di Gheddafi. In tempi più recenti, va ricordato il prestito di 7mld concesso via Sace a Stellantis durante la pandemia, prontamente restituito per stroncare sul nascere rivendicazioni in termini di produzione nazionale e livelli occupazionali; in un simile contesto di crisi, nel 2010 l’allora FCA di Marchionne preferì puntare sulla produzione americana – lautamente sostenuta dall’amministrazione Obama- chiudendo lo stabilimento siciliano di Termini Imerese e sottoponendo gli altri lavoratori a una redde rationem sui propri diritti acquisiti tramite singoli referendum soggiacenti la vera posta in palio: tenersi il posto di lavoro, pur a condizioni pessime. Oggi sul fronte della ricerca e sviluppo, fondamentale nel passaggio all’auto elettrica, Stellantis investe drasticamente meno rispetto ai principali concorrenti: a fronte di 120mld della Volkswagen Group nel periodo 2023-27, Stellantis nel periodo 2021-2025 investirà 30mld, una parte dei quali stornata sui siti di estrazione mineraria in Argentina. Si prospetta un quadro funesto per l’industria automobilistica italiana, data l’assenza di segnali favorevoli alla presenza di Stellantis sul nostro territorio: sebbene il sito di Menfi sia ancora la principale fabbrica europea in termini di produzione, gli investimenti scarsi in R&S favoriscono l’impiego di manodopera poco specializzata in altre nazioni. La composizione del cda non gioca a nostro favore, non avendo né un rappresentante dello stato né dei sindacati italiani, cosa che i francesi hanno già insieme al 60% complessivo dei rappresentanti considerandone la provenienza dalle schiere di PSA.
Ma perchè scriviamo di “Stellantis”? Cosa è successo?
di Arianna Curti
Ne scriviamo perché 17 lavoratori dalla Slovacchia sono giunti a Torino, presso l’ex stabilimento FIAT di Mirafiori per far fronte all’aumento di valori produttivi delle 500 elettriche necessari per il raggiungimento degli obiettivi di Stellantis.
Questo sembrerebbe fin qui qualcosa di ordinario cioè che si aumentino i lavoratori per far fronte ad un aumento produttivo, soprattutto alla luce delle parole dell’AD: “A Mirafiori potremmo produrre il triplo di quello che stiamo producendo adesso di Fiat 500e. Il limite non è dovuto alla capacità produttiva di Mirafiori e non ai pacchi batteria ma alla carenza di altri componenti, che sono soggetti alla fornitura di semiconduttori – Tavares, amministratore delegato di Stellantis. L’aumento della produzione delle auto elettriche, considerato positivamente dall’AD alla luce del divieto di vendita per le nuove auto a benzina o diesel dell’UE dal 2035 rende necessario aumentare la forza lavoro, questo sembra un ragionamento logico senza ombra di dubbio.
Qui entra in gioco però la straordinarietà: i lavoratori in più non sono in più veramente, ma sono semplicemente dei trasfertisti che arrivano dall’estero (era stato previsto infatti un trasferimento di lavoratori dalla Slovacchia originariamente) così da non dover aumentare i salari da corrispondere e da poter corrispondere ai trasfertisti il salario del paese di origine, a condizioni più vantaggiose per la holding, rispetto a quelle del contratto eventualmente stipulato ex novo in Italia per quella categoria di lavoratori, ma ovviamente più svantaggioso per i lavoratori.
Ma non finisce qui: dei 17 lavoratori dalla Slovacchia, 4 non sono Slovacchi eppure a loro si applicherebbe il contratto slovacco, lavorando in Italia per una multinazionale olandese. A seguito delle proteste sia dei sindacati che della parte istituzionale del Comune di Torino, emergono problemi burocratici per i lavoratori in trasferimento temporaneo (5-6 mesi) che peraltro manco erano tutti slovacchi effettivamente come preannunciato quinci ci si chiedeva appunto come potesse applicarsi il contratto slovacco a lavoratori non slovacchi impiegati in Italia. Dei 17 lavoratori, 4 tornano indietro. Successivamente però l’azienda sembrerebbe cercarne a Melfi per lo stabilimento di Mirafiori dal momento che la holding multinazionale oggi gestisce in Italia gli stabilimenti di Mirafiori-Torino, Piedimonte San Germano, Pomigliano d’Arco e Melfi. e quindi potrebbe avere a disposizione diverse sedi da cui attingere. Alla fine della ricerca, i lavoratori trasferiti sono 15 slovacchi e 2 italiani da stabilimento Sevel di Atessa.
Ma perchè trasferire e non richiamare in servizio alcuni lavoratori dello stabilimento di mirafiori in CIG? Cosa comportano questi contratti?
di Serena Gherghi
Il motivo per cui Stellantis si è rivolto a lavoratori slovacchi è molto semplice: l’utilizzo del contratto di un paese in cui i salari sono più bassi è molto più vantaggioso. In Italia siamo dei maestri a trovare delle alternative per pagare meno i lavoratori.
Ciò si è visto con le piattaforme di delivery, dove la maggior parte dei collaboratori stranieri percepisce pochi euro a consegna, ma come anche per i tirocini, e vari tipi di contratti (i co.co.co., i contratti a chiamata, etc.) i quali, senza un salario minimo, contribuiscono ad accrescere i cosiddetti working poors, cioè chi pur lavorando è vicino alla soglia di povertà o comunque non riesce a sostenere uno stile di vita dignitoso.
Quello che i sindacati denunciano è ciò che si è già visto accadere più e più volte nel nostro paese: stipulare contratti cosiddetti ‘pirata’, cioè alternativi o con qualche deroga (come sarebbe in questo caso, assumendo lavoratori stranieri con contratti stranieri) per pagare meno i lavoratori, o costringendoli a turni massacranti. Ciò che si paventava, infatti, era inizialmente di poter usufruire di lavoratori aumentandone le ore lavorative, ma nel momento in cui c’è stata sonora opposizione dei sindacati italiani, il gruppo Stellantis ha ben pensato di cercare lavoratori stranieri. In particolare, non sembra nemmeno un caso che i lavoratori provengano dallo stabilimento di Trnava, dove il reddito medio si attesta attorno ai 1100 euro mensili secondo stime locali, non precise ma che ci danno l’idea sommaria di quanto risparmierebbero rispetto, invece, a un contratto italiano con il CCNL di riferimento.
Non si sa ancora quale sarà l’effettiva risoluzione del gruppo: ciò che è certo è che a marzo hanno dato annuncio di un’apertura di uno stabilimento ad Algeri per far fronte alla produzione di sei Fiat, allontanandosi sempre di più dal Paese di cui il marchio Fiat è originario. E questa decisione sembra confermare il modus operandi anche di questa azienda: dumping salariale, delocalizzazione e risparmio anche sui materiali, il tutto condito dalla scarsa tutela dei lavoratori.