P-r-i-d-e, 54 anni dopo la rivolta dello Stonewall Inn a giugno si celebra il mese dell’orgoglio Lgbtqia+. Orgogliosə e incazzatə è una serie di quattro articoli che ci accompagnerà per tutto il mese di giugno raccontando storie, narrando battaglie e indicando una realtà che, al netto di un indubitabile miglioramento progressivo, rimane aperta e da conquistarsi.
di Samuele Appignanesi
La parola più adatta a sintetizzare l’essere trans* in Italia è limbo. È uno stato di assidua incertezza, una tensione costante, la speranza di raggiungere il proprio obiettivo mescolata con la rassegnazione al dolore che arriverà durante il percorso. Per colpa di legislazioni estremamente datate e pregiudizi diffusi fra gli stessi medici che dovrebbero accompagnarci; le persone trans*, per ottenere dei documenti che contengano il loro nome devono aspettare anni, attraversare interminabili ostacoli e spendere montagne di soldi.
Il primo ostacolo che si incontra è la scarsa diffusione delle strutture, pubbliche o private, dedicate ad offrire i servizi necessari al percorso. Esse, infatti, sono completamente assenti in alcune regioni, come le Marche e la Basilicata. I centri in Italia sono 88 in totale, tuttavia solo 23 di questi sono pubblici. Questo significa che per poter iniziare un percorso ricorrendo al servizio pubblico è necessario aspettare mesi, se non anni. Inoltre, sono molte le persone che hanno avuto esperienze molto negative con i professionisti di questi centri.
Questo porta al secondo problema: i soldi. Le strutture private offrono un servizio molto più rapido, si può iniziare il percorso anche in meno di una settimana. Ma, ovviamente, questo ha un caro prezzo, letteralmente. Il primo passo del percorso di transizione è l’ottenimento della diagnosi di disforia di genere da parte di uno psicologo o uno psichiatra, la quale richiede un tempo minimo di 6 mesi. Mentre nel servizio pubblico questo servizio è accessibile pagando semplicemente il ticket, nel privato ogni visita ha un costo minimo di 50 euro. Considerando una frequenza di due appuntamenti al mese, si arriva a un totale di almeno 600 euro. E questo è solo l’inizio.
Infatti, il percorso psicologico è seguito da un percorso endocrinologico, ossia la terapia ormonale che prosegue per il resto della propria vita. Questa seconda fase è opzionale e non tutte le persone trans* decidono di iniziarla, tuttavia, non farla rende più complesso il successivo iter giudiziario. Qualche anno fa l’Aifa ha stabilito la gratuità degli ormoni, ma l’ha vincolata alla diagnosi di disforia di genere da parte esclusivamente dei centri ospedalieri. Per tutte le persone che, per evitare di passare anni ad attendere una telefonata, hanno deciso di rivolgersi al settore privato, dovranno ancora pagare il costo intero, che varia molto in base al tipo di terapia.
Fino a una sentenza della Corte di Cassazione del 2015, tra i trattamenti necessari per la modifica del genere anagrafico, c’erano anche le operazioni chirurgiche sugli organi sessuali. Era necessario quindi fare una prima domanda per chiedere un’autorizzazione a procedere con l’intervento chirurgico e poi, fatto quest’ultimo, richiedere una seconda sentenza per rettificare i documenti. Ad oggi è il giudice che autorizza le operazioni quando ritiene che siano necessarie per il benessere psicofisico della persona, ma questa decisione non è più un pre-requisito per cambiare i documenti.
Completati questi due step si arriva all’iter legale. Infatti, per ottenere il cambio dei documenti è necessario avere una sentenza emessa dal Tribunale. E non si tratta di un semplice passaggio burocratico, ma di un processo vero e proprio in cui bisogna convincere il giudice della legittimità della propria identità di genere. Vi sono molte criticità con questo modello, prima fra tutte il fatto che rende anche questa fase del percorso estremamente lunga, il tempo medio del procedimento è di circa 10 mesi, ma ci sono casi in cui si estende anche per diversi anni. Questo significa che per anni una persona, grazie alla terapia ormonale, ha un aspetto che non corrisponde a quanto indicato nei suoi documenti, esponendola ad attacchi e discriminazioni. Inoltre, si pone nuovamente la problematica dei costi. Le persone con un reddito personale inferiore a circa 12 mila euro possono beneficiare del gratuito patrocinio, gli altri, invece, dovranno spendere, mediamente, intorno a 2000 euro. Infine, si pone il tema di quanto sia idonea la figura del giudice a decretare in questo ambito e se sia davvero necessario sottoporre a un’ennesima prova una persona che ha già dovuto dimostrare la propria identità a molteplici professionisti.
Tutto questo rende chiaro quanto lunghi siano i tempi e quanti sacrifici siano richiesti alle persone trans* nel nostro paese. Dietro alle date e alle procedure evidenziate sopra si nascondono notti insonni passate a pensare a tutte le cose che possono andare storte, crisi di pianto in cui ci si chiede se si ha davvero la forza per arrivare fino in fondo, momenti di disperazione quando dopo mesi non si riceve ancora quella telefonata che segna l’inizio del tragitto. E, come evidenzia la recente vicenda di violenza da parte della polizia locale contro una donna trans, neanche dopo aver attraversato tutto questo otteniamo il diritto di essere considerati degli esseri umani, di poterci sentire al sicuro nelle nostre città. Le mille prove che affrontiamo quotidianamente non bastano a salvarci dall’essere delle persone di serie B che devono imparare a proteggersi per sopravvivere. Anni di fatica non ci salvano dal limbo.
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