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di Serxho Marku

Per un introduzione

La Repubblica del Kosovo, confinando con Albania, Serbia, Montenegro e Macedonia del Nord, si trova nel cuore dei Balcani. Da sempre crocevia tra Occidente e Oriente, oggi si identifica come una repubblica multietnica: in base al censimento del 2011, la popolazione risulta essere per il 92,9% di etnia albanese, 1,5% serba, 1,6% bosniaca, 1% di etnia turca, 0,5% di etnia rom, mentre il restante 2,5% gorani ed ashkali. La quasi totalità degli albanesi professa la religione islamica, mentre i serbi quella ortodossa.

Come e perché si è arrivati a un Kosovo indipendente?

Da sempre terra contesa tra vari popoli, in seguito all’invasione slava dei balcani nel VII secolo d.C., il territorio kosovaro passò sotto il controllo del regno serbo fino alla battaglia della piana dei merli del 1389: quando l’alleanza militare tra serbi, bosniaci e albanesi, formatasi per difendere il cristianesimo dei balcani, venne sconfitta dall’Impero ottomano. Proprio su questa sconfitta nasce il “mito” sul quale si fonda l’ultranazionalismo serbo: secondo tale propaganda, il Kosovo li è stato sottratto dai musulmani in questa battaglia.

A seguito della prima guerra balcanica, tra il 1912 e il 1913, le sei grandi potenze del tempo – Francia, Germania, Regno Unito, Russia, Italia e Impero austro-ungarico – assegnarono il territorio dell’odierno Kosovo al regno di Serbia, nonostante fosse abitato in maggioranza da albanesi.

A dispetto di un processo di colonizzazione instaurato dal Regno dei Serbi, Croati e Sloveni durante il periodo tra le due guerre mondiali (si stima che vennero insediati in Kosovo circa 67’000 coloni serbi, mentre furono tra i 200’000 e 300’000 gli albanesi costretti a fuggire), l’etnia albanese continuò ad essere maggioritaria per tutto l’arco del secolo scorso.

Durante la Seconda guerra mondiale il Regno di Jugoslavia venne invaso dalla Germania e dall’Italia: gran parte del territorio venne così annesso all’Albania, già da diverso tempo colonia italiana. Al termine della guerra, il Kosovo si ritrovò sotto il controllo della Repubblica socialista Jugoslava: gli albanesi nella Jugoslavia comunista vennero subito presi di mira e considerati dei collaboratori dei nazisti e dei fascisti.

I confini dell’odierno Kosovo vennero stabiliti nel 1946 quando ottenne lo status di “provincia autonoma” all’interno della Repubblica popolare di Serbia. Il fatto di essere una provincia autonoma non consentiva gli stessi diritti di cui godevano le repubbliche costituenti la Jugoslavia. Tito, sapendo che per creare una forte repubblica federale aveva bisogno di mantenere salda la convivenza delle varie etnie, decise quindi di elargire maggiore autonomia al Kosovo nel 1968 e ancora nel 1974: l’albanese divenne lingua co-ufficiale in Kosovo insieme al serbo-croato, sia creò un proprio governo formato da albanesi e ingenti investimenti arrivarono nella regione.

Subito dopo la morte di Tito, iniziarono ad accentuarsi i problemi economici per via dell’instabilità politica. Le prime rivolte si verificarono proprio nella capitale del paese, Pristina, dove gli albanesi, oltre a protestare per le misere condizioni di vita, chiedevano anche lo status di “repubblica” al pari delle altre sei che formavano la Jugoslavia socialista.

I disordini e le proteste continuarono per tutto il decennio 1980-1990 finché, nel 1989, il presidente serbo, Slobodan Milošević, decise di revocare lo status di provincia autonoma in Kosovo: gli albanesi persero ogni tipo di rappresentanza, la lingua albanese  non fu più lingua co-ufficiale e tutti i funzionari statali di etnia albanese vennero sostituiti con funzionari di etnia serba.

Nei primi anni 90’ la popolazione albanese iniziò una resistenza non violenta guidata da Ibrahim Rugova, il “Gandhi dei Balcani”. Venne creato un sistema scolastico parallelo e molti albanesi iniziarono a migrare verso i paesi occidentali.

Al termine della guerra in Bosnia nel 1995, il governo serbo iniziò ad attuare una pulizia etnica in Kosovo che portò ad una vera e propria guerra civile tra albanesi e serbi. Per evitare una carneficina pari a quella bosniaca, nel 1999 la NATO intervenne in protezione della popolazione albanese: dopo 78 giorni di bombardamenti, Milošević accettò la resa e ritirò l’esercito dal Kosovo. Il 9 giugno 1999 venne firmato l’accordo di Kumanovo, che prevedeva la fine delle ostilità e il completo ritiro dell’esercito Jugoslavo dal Kosovo. Il 12 giugno 1999 le truppe NATO della missione KFOR entrarono nel paese per avviare la missione di pace, che tutt’oggi continua. Con la risoluzione ONU 1244 il Kosovo venne sottoposto ad una amministrazione provvisoria da parte delle Nazioni Unite.

Nel 2006 iniziarono le trattative che non portarono a nessun risultato con la Serbia e il 17 febbraio  2008 il Kosovo dichiarò unilateralmente l’indipendenza. Seguendo il piano Ahtisaari il Kosovo si sarebbe presentato come una repubblica multietnica simboleggiata da una bandiera che rappresentasse tutte e sei le etnie facenti parte della popolazione. Per rendere il più possibile “digeribile” l’indipendenza dalla Serbia, la tutela di questa minoranza fu garantita all’interno della nuova costituzione. Tuttavia, i serbi non hanno mai voluto collaborare con il nuovo Stato e, seguendo le direttive, di Belgrado hanno fatto di tutto per “bloccare” e intralciare il più possibile il funzionamento dello Stato. Le enclavi serbe del Nord di fatto sono una “terra di nessuno” dove regnano la criminalità e bande armate che si oppongono strenuamente a qualsivoglia autorità kosovara.

Kosovo e Serbia, una guerra ‘congelata’

Nonostante siano passati ormai 15 anni dalla proclamazione d’indipendenza del Kosovo, ancora oggi le tensioni tra i due paesi non si sono mai sopite e la Serbia continua a rifiutarsi di riconoscere la sovranità di questo paese. Nel 2013 si era arrivati alla firma di un accordo bilaterale con la mediazione dell’Unione Europea: sembrava che il passato fosse rimasto alle spalle e che i due paesi si sarebbero finalmente uniti all’Unione. Oggi, a distanza di 10 anni dalla firma di quell’accordo, i due paesi sembrano essere più distanti che mai.

L’accordo del 2013 prevedeva la creazione di una “associazione” dei 10 comuni kosovari popolati in maggioranza da serbi: in poche parole la concessione a questi comuni di grandi autonomie nel tentativo di integrare la comunità serba in Kosovo. Nonostante le pressioni di Belgrado siano sempre  state più forti in questo senso, nessuno dei governi kosovari è riuscito a mettere in atto questo accordo; soprattutto per la sua ambiguità.

Potrebbe forse bastare al governo kosovaro creare quest’associazione di comuni per ottenere l’agognato riconoscimento della propria sovranità da parte serba? Probabilmente no perché le reali intenzioni della Serbia sono quelle di arrivare ad uno scambio di territori.

Uno scambio dei territori tra Kosovo e Serbia può essere la soluzione?

Con la fine della guerra si capì subito lo schieramento delle potenze mondiali in Kosovo: l’Occidente si poneva apertamente a favore del piccolo stato mentre Cina e Russia dalla parte della Serbia. Nonostante lo scetticismo della Germania, nel 2018, grazie alla mediazione dell’amministrazione Usa, viene proposto uno scambio di territori mai firmato a causa dell’arresto del premier Kosovaro Hashim Thaçi.

La Serbia avrebbe ottenuto dal Kosovo le enclavi serbe del Nord, ricche di giacimenti minerari, mentre il Kosovo avrebbe ottenuto 3 città dalla Serbia, abitate in prevalenza da albanesi. Oltre ad essere un accordo profondamente razzista, perché avrebbe allontanato il più possibile le due etnie, questo avrebbe creato un precedente pericolosissimo che avrebbe potuto causare un effetto domino per i paesi adiacenti, tra cui Macedonia del Nord e Bosnia.

Questione di “reciprocità”?

Nel 2021 con la vittoria del partito Vetëvendosje!’ (“autodeterminazione!”), guidato da Albin Kurti, iniziarono le prime tensioni. Per la prima volta a seguito dell’indipendenza si riuscì a formare un governo senza l’appoggio dei deputati serbi. Tuttora Premier, Kurti basò la sua campagna elettorale sul concetto di “reciprocità”,  vale a dire attuare una politica nei confronti della Serbia uguale alla politica serba riguardo il Kosovo: a settembre 2021 scoppia la cosiddetta “guerra delle targhe” causata dall’obbligo imposto dal governo kosovaro di esporre targhe provvisorie recanti la dicitura “Repubblica del Kosovo” per poter entrare nel paese ai veicoli serbi; esattamente come la Serbia, dal 2011, obbligava i veicoli kosovari ad esporre la dicitura “SRB” per poter entrare nel paese.

Dopo alcune mediazioni il governo kosovaro rimandò più volte il provvedimento, che ad oggi ancora non è stato attuato per via delle pressioni internazionali sul Kosovo.

Con l’inizio del conflitto russo-ucraino l’instabilità tra Kosovo e Serbia continuò ad aumentare, se da una parte il Kosovo si è schierato subito a fianco dell’Ucraina, la Serbia continua a difendere il proprio “fraterno alleato russo” rimanendo quasi  l’unico paese europeo a non aver imposto sanzioni alla Russia.

Entrambe le parti cercano di guadagnare più “successi” possibili approfittando della pressione creata dalla guerra, siccome  l’Occidente vuole evitare due conflitti contemporanei in Europa, capaci di indebolire fortemente la NATO.

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Come si è arrivati allo stallo attuale?

A settembre 2022 viene proposto a Kosovo e Serbia il cosiddetto accordo franco-tedesco, il quale avrebbe consentito alle due parti di avanzare nei processi di adesione di varie organizzazioni internazionali, tra cui UE e ONU, senza che una delle due parti potesse bloccare l’altra.

Il 5 novembre 2022, tuttavia, nel tentativo di bloccare la proposta franco-tedesca, tutti i funzionari serbi del Kosovo si dimettono in massa e a novembre il paese emana nuove elezioni per poter ristabilire il vuoto creatosi nei comuni a maggioranza serba. A causa del clima di elevata tensione USA ed UE chiedono al Kosovo di posticipare la data delle elezioni per aprile 2023. Nel frattempo, dopo varie pressioni, prendendo spunto dalla proposta franco-tedesca, l’UE presenta “l’accordo di Bruxelles”, che consentirebbe al Kosovo di essere riconosciuto de facto ma non de jure da parte della Serbia.

Il 18 marzo 2023 viene raggiunto l’accordo, nonostante il presidente serbo Aleksandar Vučić si rifiuti di firmarlo perché a detta sua aveva “dolori alla mano”. Il 23 aprile si tengono le elezioni nei comuni di etnia serba che, però – su direttiva di Belgrado –  vengono boicottate dai serbi: ciò causa un’affluenza di solo il 3,5% e la vittoria di candidati albanesi.

Il 26 maggio le strutture criminali serbe nel nord occupano le sedi dei municipi e dei comuni per bloccare l’insediazione di sindaci albanesi: tre giorni dopo le forze della missione NATO KFOR intervengono per evitare lo scontro tra polizia kosovara e dimostranti serbi, portando al ferimento di 41 militari della KFOR.

A distanza di diverse settimane le parti continuano ad essere distanti tra loro, Pristina vuole nuove elezioni a patto che vengano rimosse le barricate e che i serbi si presentino alle urne. Belgrado continua a insistere sulla creazione dell’associazione delle municipalità serbe in Kosovo, anche se il suo vero obiettivo resta lo scambio dei territori: con uno scambio di territori di questo genere la Serbia creerebbe un precedente capace di permettere alla Republika Srpska la secessione e di creare la cosiddetta “grande Serbia”.

Il ruolo dell’Albania

Anche se a molti può sembrare strano, il governo dell’Albania supporta in maniera quasi diretta Belgrado. Il premier Edi Rama ha molte più cose in comune con la Serbia rispetto al Kosovo: sia Rama che Vučić sono due autocrati il cui unico obiettivo è quello di preservare il proprio potere.

Il Kosovo invece, con il governo socialdemocratico guidato da Kurti, ha ottenuto grandissimi risultati in materia di lotta alla corruzione e stato di diritto: in base al rapporto del World Justice Project del 2022 il Kosovo è stato il secondo paese al mondo dopo l’Honduras nel migliorare il proprio stato di diritto diventando così il paese più democratico dei Balcani, occidentali (escludendo i paesi balcanici facenti parte dell’UE).

Dopo le minacce dell’UE e degli USA di porre sanzioni al Kosovo per la crisi creatasi al nord, l’Albania è stato il primo paese ad annullare un incontro tra il governo di Pristina e quello di Tirana che avrebbe dovuto avere luogo a metà giugno. Anche se l’unione tra Albania e Kosovo resta il sogno di qualsiasi intellettuale albanese, tutti sanno che un cambiamento dei confini nei balcani potrebbe essere fatale.

Ciò allontana ancora di più i due paesi e i rispettivi governi: con la volontà del Kosovo di continuare il percorso democratico e la situazione dell’Albania che, con un premier al suo terzo mandato consecutivo, sembrerebbe rischiare di diventare “la nuova autocrazia dei balcani”.

Ci sarà un nuovo conflitto tra Kosovo e Serbia o si tornerà al dialogo?

Gli alleati del Kosovo, Stati Uniti e UE, continuano a pressare Pristina affinché risolva la crisi formalizzando l’associazione dei comuni, assecondando le richieste serbe: siccome non è possibile esercitare pressioni sulla Serbia, che ha Cina e Russia pronte ad aiutarla, la pressione internazionale si concentra infatti solo su questo paese.

Negli ultimi anni, la Serbia ha piazzato 48 basi militari  attorno al Kosovo a pochi chilometri dal confine. Questo perché Belgrado non fa altro che attendere un indebolimento e il ritiro delle truppe NATO per poterlo attaccare. Oggi il governo serbo è il più forte militarmente nei Balcani, subito dopo quello greco, grazie agli ingenti investimenti del governo serbo, che ragiona anche su un reinserimento della leva obbligatoria.

Finché la NATO sarà presente in Kosovo, la Serbia continuerà a sedersi al tavolo dei negoziati, ma per quanto tempo le truppe KFOR faranno ancora da deterrente? Cosa succederebbe se la NATO si ritirasse? La Serbia, senza dubbio, invaderebbe il Kosovo con il serio rischio di far scoppiare quella che, da più di cento anni a questa parte, è definita “la vera polveriera del continente”.

Redazione GD

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La Redazione è lo spazio di approfondimento e confronto pubblico dei Giovani Democratici di Milano Metropolitana!

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