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di Samuele Appignanesi

[TRIGGER WARNING: in questo testo di tratta di molestie sessuali, autolesionismo, disordini alimentari, ideazione suicida. Si sconsiglia la lettura a tutti i soggetti sensibili]


 

 

 

Ci sono ormai molte testimonianze su cosa significa subire una molestia sessuale, sul gelo che si sente nel sangue quando si realizza cosa sta succedendo, sul puro e infiltrato terrore che pervade ogni parte del corpo. Ma un aspetto di cui si parla ancora poco è il Dopo. Il resto della vita che passa con quel peso, il marchio di quello che il proprio corpo ha subito. Una cosa del genere non scompare quando si esce da quella stanza, rimane nello stomaco, rinchiusa dalla paura di dover realizzare ed affrontare la realtà.

Per 2 anni dopo che è successo, l’ho dimenticato. Avevo chiuso in una scatola i dettagli di quelle ore e l’avevo lanciata in fondo all’oceano. Poi ho iniziato a vedere uno psicologo e gli effetti del mio attacco sono diventati evidenti. Ero costantemente teso, in allerta, pronto per un attacco improvviso. Non riuscivo a chiudere gli occhi davanti a lui, davanti a nessun uomo. Un giorno, mentre cercavamo di fare esercizi di mindfulness, ho avuto un flash improvviso e un immediato attacco di panico. Ho rivisto la faccia di quell’uomo, la porta della stanza in cui sono rimasto chiuso, quel sorrisetto che ha avuto per tutto il tempo; ho risentito la sensazione della sua mano, i miei piedi che si congelavano, l’istinto di scappare e l’incapacità di muovere un singolo muscolo. Ho rivissuto tutto, come se stesse succedendo in quel momento. Non sono riuscito a pronunciare le parole “molestia sessuale” per molto tempo, sentivo che chiamarle in quel modo le avrebbe rese davvero reali e mi avrebbe costretto ad affrontarle. Non ce l’avrei mai fatta da solo. Per fortuna non lo ero.

Nei mesi successivi, la mia ansia è diventata così grande che non riuscivo a passare 5 ore a scuola senza avere almeno una qualche crisi. Sono diventato paranoico, diffidente, solitario. Ho notato alcuni comportamenti che avevo da anni, ma a cui non avevo mai prestato attenzione. Alcuni di questi sono ancora parte di me, uno dei lasciti di quel giorno che non riuscirò mai ad abbandonare completamente. Ogni volta che entro in una stanza, devo avere la porta in vista e, se ci sono più persone, nessuna di loro deve essere dietro di me. In alcuni giorni è ancora difficile accettare il contatto fisico, specialmente se viene da uomini. Poche settimane dopo aver ricordato quello che mi era successo, ho chiesto al mio psicologo di ipnotizzarmi, di farmi dimenticare di nuovo. Lui mi ha detto che, anche se la mia mente poteva dimenticare, il mio corpo avrebbe sempre ricordato. Quando la mia mente era ignara, il mio corpo sapeva. Non potevo impedire a quell’inferno di cambiarmi perché lo aveva già fatto.

A volte le persone mi parlano di perdono, mi dicono che perdonare mi farebbe stare meglio. Forse sarebbe vero, se sapessi che lui lo rimpiange genuinamente, se fosse stato in qualsiasi modo punito. Ma perché dovrei perdonare una persona che non ha dovuto subire nessuna delle conseguenze del suo atto, che probabilmente si è comportato allo stesso modo con oceani di ragazzine ingenue? La mia rabbia, a giorni, mi sembra l’unica cosa che mi rende in grado di sopravvivere. Per anni non l’ho sentita, dirigevo tutto il mio dolore contro me stesso, autolesionismo, disordini alimentari, ho usato ogni mezzo possibile per esternarlo. Quando ho imparato ad essere arrabbiato, non ho più smesso. È lui che dovrebbe soffrire, è lui che dovrebbe svitare lamette dai temperini, bere acqua calda e sale per vomitare, non riuscire a guardarsi allo specchio senza sentirsi sporco. Spero che muoia, spero che sia già morto, spero che sia stato doloroso, spero che fosse da solo, spero che nessuno si ricordi di lui con affetto e che non ci siano fiori sulla sua tomba. E non penso che queste speranze mi rendano una brutta persona, non penso che sporchino la mia anima più di quanto hanno fatto le sue mani.

Dopo anni di psicoterapia e di lavoro, mi sono convinto di averlo superato. Ho deciso che era giunta l’ora di diventare normale. Sono uscito con un ragazzo, ho messo una gonna un po’ troppo corta e il mio rossetto preferito. Ho riso alle sue battute e bevuto i drink che mi ha offerto. Quella sera ho scoperto un altro modo in cui sono rovinato. Quando lui mi ha toccato per un secondo, nel buio, la sua faccia mi è sembrata quella del mostro. Ho inghiottito la mia paura, l’ho lasciato fare. E poi: dolore.

Esiste una condizione, si chiama vaginismo, e Wikipedia la definisce così: “sul versante corporeo il disturbo consiste in una contrazione riflessa e involontaria dei muscoli del perineo, della vulva, dell’orifizio vaginale tale da impedire la penetrazione necessaria al coito e spesso anche durante l’esame ginecologico. Sul versante psicologico si riscontra un vissuto fobico e di evitamento nei confronti dell’atto penetrativo”. È una conseguenza di aver subito un trauma sessuale e, ovviamente, è capitata anche a me. Dicono che sia curabile, ma non ho intenzione di provare. Sono stanco di stare male, di lavorare e lavorare senza fine, di camminare in un tunnel per ore verso una luce che si rivela essere solo un’allucinazione. Ci vuole forza per guarire e io temo di aver finito la mia.

Mentre stavo vivendo tutto questo, ero anche uno studente al liceo classico. E una cosa divertente sui traumi è che sono super efficaci a far scomparire tutti i vostri presunti amici. Ogni giorno, ogni singolo giorno, indifferentemente da quanto terrificanti fossero stati i miei incubi quella notte, da quanta ansia sentissi accumulata nel mio stomaco, da quanto poco avessi mangiato, mi svegliavo alle 6 e mezza di mattina e andavo a scuola. La scuola era la mia ancora alla realtà, l’unica cosa che ero in grado di fare e che mi dava qualche soddisfazione. Pensavo anche che le persone che avevo conosciuto lì mi sarebbero state vicino, mi sbagliavo. Ci hanno messo un paio di mesi a prendermi come un caso perso e a iniziare a ridere di me. Non sapevano davvero cos’era che mi stava distruggendo, non sarei mai riuscito a dirglielo. Ma avevo sempre pensato che il primo istinto di chiunque quando vede un animale ferito per strada fosse provare ad aiutarlo. Ho scoperto che la maggior parte delle persone, invece, vogliono schiacciarlo.

Il mio psicologo di quegli anni parlava di guarigione. Di arrivare ad essere in grado di coesistere con la realtà di quello che era successo. Non so se si può chiamare guarire questa cosa che sto facendo. Sto correndo in cerchio, urlando contro l’abisso, accumulo rabbia senza essere in grado di lasciarla uscire. Le persone che mi amano sono fiere di me, mi ripetono mille volte quanto sono forte. Ma non lo sanno. Non sanno la parte peggiore, non la sa nessuno. Non sanno che, quando lui mi ha detto “sei troppo bella per avere 15 anni”, io gli ho sorriso. Non sanno che ho accettato ogni suo complimento con un sorriso. Non sanno che, dopo la prima volta che mi ha toccato, io sono tornato da lui di nuovo, anche se non dovevo, anche se un pochino realizzavo che era sbagliato. E forse è per questo che non riesco a dire “molestia sessuale” e considerarmi una “vittima”. C’è una parte di me che voleva apprezzamento così tanto, che la perdita della mia innocenza sembrava insignificante. Non ho mai conosciuto il tipo di amore che non ha un prezzo, quindi mi è sembrato in qualche modo giusto che lui prendesse qualcosa in cambio.

La cosa più strana del Dopo, però, è che il tempo passa, il sole tramonta sulle crisi di pianto e sorge sul primo abbraccio che ti conforta invece che spaventarti. Non so se diventa più facile col tempo, non credo che il dolore diminuisca e scompaia e che la ferita semplicemente guarisca. Starei mentendo se dicessi che non lo sogno ancora ogni tanto, che una faccia simile alla sua per strada non mi congela per qualche secondo. E sono ancora così tanto invidioso di chi si è salvato e non ha idea di cosa significa dividere così chiaramente la propria vita in prima e Dopo.

Però non mi ha ucciso, per quanto vicino ci sia andato.

Non mi ha ucciso.

Respiro.

Non mi hai ucciso.

Redazione GD

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La Redazione è lo spazio di approfondimento e confronto pubblico dei Giovani Democratici di Milano Metropolitana!

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