di Michelangelo Colombo
Negli ultimi mesi è tornato centrale il tema delle riforme istituzionali per risolvere l’instabilità governativa che caratterizza il nostro Paese fin dalla sua nascita. Da quarant’anni si discute se cambiare o no la forma di governo della nostra Repubblica.
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, insieme agli altri partiti della coalizione di destra, è convita che una riforma delle sue istituzioni possa fare solo del bene all’Italia, ottendo così stabilità e governi nati da chiare indicazioni popolari. Per questa ragione il capo del governo ha avviato un giro di consultazioni con i partiti dell’opposizione, volto a trovare dei punti in comune, in modo che la riforma possa essere sostenuta dalla maggior parte dei partiti presenti in Parlamento, espressione della volontà dei cittadini.
Nonostante il governo non abbia ancora presentato una propria proposta in Parlamento, durante la conferenza stampa dello scorso anno, Meloni ha comunque precisato che il punto di partenza per la discussione sarà il semipresidenzialismo, «perché è quello su cui storicamente c’è stata la maggiore convergenza» tra tutti i partiti, sia del centrodestra che del centrosinistra.
Le diverse forme di governo repubblicane
Le repubbliche parlamentari, come l’Italia, si caratterizzano per la centralità del Parlamento. Il Primo ministro (presidente del consiglio, cancelliere e presidente del governo) è il capo del governo e necessità della fiducia del Parlamento per poter governare. L’organo legislativo è l’unico che può rimuovere il Primo Ministro anche contro la sua volontà con una mozione di sfiducia. In Germania esiste la sfiducia costruttiva, l’indicazione del nuovo capo di governo nella mozione di sfiducia, per evitare che si verifichino delle “crisi al buio”, ovvero l’assenza di un nuovo governo pronto a prendere il posto di quello sfiduciato, come spesso accade in Italia. Il Presidente della Repubblica detiene poteri cerimoniali e svolge il ruolo di garante della Costituzione. In alcune repubbliche parlamentari è eletto direttamente dai cittadini (Croazia, Finlandia, Slovenia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Lituania, Irlanda, Bulgaria, Serbia e Macedonia del Nord) mentre in altre dall’organo legislativo (Estonia, Germania, Grecia, Italia, Lettonia, Ungheria, Georgia, Armenia e Albania).
Le repubbliche semipresidenziali, come la Francia, si caratterizzano per una condivisione del potere esecutivo tra Presidente e Primo Ministro. Il capo di stato è eletto direttamente dai cittadini con un voto disgiunto da quello per l’organo legislativo. I rapporti tra il Presidente e il Parlamento rimangono identici in quelli di una repubblica parlamentare: il Presidente può sciogliere il Parlamento mentre quest’ultimo può mettere in stato d’accusa il Presidente per alto tradimento e attentato alla Costituzione.
In un sistema semipresidenziale avviene una riorganizzazione all’interno del potere esecutivo, senza toccare il Parlamento: il Presidente riveste un ruolo più centrale, garantendo il mantenimento di una linea politica chiara, nonostante i cambi di governo (come accade in Francia).
In questo sistema il Presidente può nominare e a volte anche rimuovere il Primo ministro (Portogallo, Austria e Russia), ma necessita sempre della conferma da parte del Parlamento. In Europa diversi paesi hanno adottato questa forma di governo, ma si sono sviluppate consuetudini diverse che li hanno differenziati tra di loro: soltanto in Francia e in Russia è centrale la figura del Presidente all’interno del governo e della politica nazionale, mentre in Portogallo, Austria, Romania e Polonia il ruolo principale lo detiene il Primo ministro; infatti gli ultimi quattro paesi menzionati sono rappresentati al Consiglio europeo dai capi di governo a differenza della Francia, che è rappresentata dal Presidente.
Questa forma di governo è stata la risposta francese per correggere l’instabilità governativa che aveva bloccato la Quarta Repubblica (di stampo parlamentare) e ha segnato la nascita della Quinta.
La forma di governo presidenziale è insolita nel panorama europeo perché la maggior parte delle repubbliche parlamentari erano una volta delle monarchie costituzionali. Quando nell’Ottocento i cittadini europei insorsero contro le monarchie assolute, riuscirono ad ottenere l’elezione diretta di un organo legislativo che limitasse i poteri del sovrano, lasciandogli soltanto il potere esecutivo. Nel corso del Novecento si è arrivati “con il crollo degli imperi europei e le due guerre mondiali” ad estromettere il monarca dalla vita politica in alcuni paesi europei, mentre altri sono passati alla monarchia parlamentare, in cui il re o la regina svolge le medesime funzioni cerimoniali di un Presidente in una repubblica parlamentare. La forma presidenziale nasce negli Stati Uniti d’America perché i padri costituenti americani presero a modello il sistema britannico, sostituendo al Re un Presidente eletto da un collegio elettorale, a sua volta eletto dai cittadini americani. In Europa soltanto Cipro, Bielorussia e Turchia hanno adottato questa forma di governo.
Breve excursus storico
I partiti di centrosinistra si sono storicamente impegnati per riformare le istituzioni italiane in senso semipresidenziale. Negli anni Ottanta Bettino Craxi e Giuliano Amato si espressero a favore di una “Grande riforma” che avrebbe dato stabilità all’Italia e migliorato i rapporti con le altre grandi potenze. Giuliano Amato la definì una “riforma senza traumi” con l’elezione diretta del capo dello Stato.
Con la nascita della “Seconda Repubblica” tutti i principali partiti politici erano intenzionati a cambiare la parte seconda della Costituzione. Nel 1997 la Commissione bicamerale per le riforme istituzionali composta da 70 senatori e deputati, scelti dai presidenti del Senato e della Camera, era arrivata a una riforma che era molto simile al semipresidenzialismo francese. Romano Prodi era allora il Presidente del Consiglio e Massimo d’Alema era stato eletto Presidente della Commissione bicamerale, grazie anche ai voti di Forza Italia. Dopo un anno di discussioni, Berlusconi decise di abbandonare il progetto di riforma rilanciato con il cancellierato e il sistema proporzionale, portando l’ufficio di presidenza della Camera a sospendere la discussione del progetto.
Nel corso della XVI e della XVII legislatura un gruppo di deputati del Pd tra cui Boccia, Giacchetti, Misiani, Nardella e Quartapelle presentarono una proposta di legge costituzionale, a favore di modifiche alla parte seconda della Costituzione per assicurare il pieno sviluppo della vita democratica e la governabilità del Paese. Stando al testo il Presidente della Repubblica sarebbe stato eletto ogni cinque anni e soltanto una volta avrebbe potuto essere rieletto. L’età minima per essere eletti sarebbe passata da 50 a 35 anni. Il Presidente avrebbe nominato e revocato il Primo Ministro, e su proposta di questo avrebbero nominato e revocato i Ministri. Nel caso in cui entro cinque giorni dalla revoca del Primo Ministro il Parlamento confermasse la fiducia, il Presidente della Repubblica sarebbe decaduto e il Parlamento sciolto, tornando a nuove elezioni. La riforma prevedeva anche di abbassare l’età minima per diventare senatori da 40 a 25 anni, ma non venne approvata.
Durante la precedente legislatura (XVIII), tra il 2018 e il 2022, Il Partito Democratico ha presentato una proposta di riforma costituzionale di tipo semipresidenziale sia alla Camera sia al Senato. La prima proposta era di un gruppo di deputati del Pd come Ceccanti, Marco di Maio e Quartapelle ed aveva come obiettivo la modifica della parte II della Costituzione per introdurre l’elezione diretta del Presidente della Repubblica con successiva elezione dei membri delle Camere, nonché uniformare i requisiti di elettorato attivo e passivo per il Senato e la Camera. Il capo dello stato sarebbe stato eletto ogni cinque anni con un massimo di due mandati e l’età minima sarebbe passata da cinquanta a venticinque anni. La seconda proposta era dei senatori del Pd Cerno e Parrini, e riprendeva quella delle precedenti legislature (XVII e XVI) presentata insieme ai colleghi e alle colleghe.
Nel corso degli ultimi vent’anni diversi esponenti di spicco del centrosinistra si sono espressi a favore o contrari di un passaggio al sistema semi-presidenziale.
Romano Prodi, nel 2013, a seguito del risultato delle elezioni politiche, auspicava “un governo forte e stabile, con una maggioranza finalmente in grado di prendere decisioni”. Secondo l’ex presidente del Consiglio la soluzione migliore era “ingoiare la medicina francese”, adottando sia il sistema elettorale maggioritario a doppio turno sia il sistema semipresidenziale. Per Prodi era indispensabile “un forte accentramento di potere nelle mani del vincitore delle elezioni, almeno come ora avviene nel caso dei sindaci, o ancora di più, come in Francia nella persona del presidente della Repubblica”.
Alle obiezioni circa i pericoli di una verticalizzazione del potere personale il fondatore dell’Ulivo aveva ribattuto affermando che: “Non solo questo non mi fa paura, ma penso che sia l’unica via di salvezza per un Paese che, come l’Italia, ha bisogno di prendere, nel rispetto della volontà degli elettori, le decisioni necessarie per farla uscire dalla ormai troppo lunga paralisi”.
Rosy Bindi si di dichiarò “addolorata in modo particolare” per le affermazioni di Prodi, mentre il politologo Parisi rilanciò il modello semipresidenziale come una condizione essenziale per il mantenimento del bipolarismo distrutto dagli elettori.
Lo stesso presidente del consiglio dell’epoca, Enrico Letta, appoggiò i tentativi di svolta costituzionale affermando che: “assegnare l’elezione diretta del Presidente della Repubblica a mille persone non è più possibile”. Anche se si era espresso a favore del modello francese proposto da Prodi in maniera “troppo felpata”, Letta ammirava il presidente eletto direttamente dal popolo. Altre figure di spicco del PD presero le distanze dal semipresidenzialismo di Prodi, come D’Alema e Cuperlo. Proprio contro di lui, all’epoca candidato alle primarie in competizione con Renzi, si scagliò l’area prodiana additandolo come un garante degli equilibri del passato. Elly Schlein disse che “la vera sfida è tra Renzi e Civati perché sanno parlare non soltanto alla platea degli iscritti, ma a tutti gli elettori, mentre Cuperlo è in totale continuità con il gruppo dirigente”.
Il Semi-presidenzialismo porterà stabilità?
Tutti sappiamo che l’Italia è una Repubblica parlamentare, ma sappiamo anche che il nostro modello di parlamentarismo funziona male. In 75 anni di vita repubblicana abbiamo avuto 69 governi, con una durata media di 14 mesi. Nel nostro modello, che la legge elettorale sia proporzionale o maggioritaria, abbiamo avuto sempre governi di coalizione, che hanno tutti mostrato grande difficoltà nel tenere coesa la maggioranza e nel decidere le linee di governo.
Il modello costituzionale del 1946 è riuscito a rendere l’Italia uno Stato repubblicano democratico e pluralista, ma non è riuscito a creare un sistema di governo davvero efficace. Tutto ebbe inizio proprio dall’Assemblea Costituente e dall’ordine del giorno del deputato Tomaso Perassi del Partito Repubblicano Italiano. I Costituenti dopo aver discusso di presidenzialismo e di parlamentarismo, aver valutato il sistema americano e quello inglese, avevano deciso una via di mezzo, pronunciandosi a favore dell’adozione del sistema parlamentare, che avrebbe dovuto essere disciplinato con dispositivi costituzionali idonei a tutelare la stabilità del Governo ed evitare le degenerazioni del parlamentarismo.
I costituenti erano consapevoli che il parlamentarismo non avrebbe funzionato senza quei meccanismi per tutelare la stabilità dei Governi. Queste riforme però non sono mai arrivate.
Bozzi 1983, De Mita-Jotti 1992, D’Alema 1997, Berlusconi 2005, Renzi 2016, questi sono i tentativi di riforma che dimostrano che è necessario cambiare, anche se nelle difficoltà della politica non ci si è mai riusciti.
Il sistema semi-presidenziale ha dei vantaggi che sono evidenti: i governi riescono a durare di più, o quantomeno la presenza del Presidente garantisce il mantenimento di una chiara linea politica generale. Nelle nostre diciannove legislature fino ad ora nessun governo è rimasto in carica per cinque anni.
Nei sistemi semipresidenziali non può certo andare al governo chi ha perso le elezioni e in tal modo l’elettore ha un maggior riconoscimento delle sue indicazioni. Forse tra le cause della disaffezione degli elettori dalla politica degli ultimi decenni, che ha portato l’affluenza alle urne dal 94% al 63%, c’è anche la non corrispondenza tra voto e compagine di governo.
Il sistema semi-presidenziale non è comunque perfetto e presenta anche lui dei problemi: c’è una confusione tra i ruoli di Presidente della Repubblica e di Primo Ministro, chi detiene maggior potere e a chi vanno attribuite le conseguenze delle scelte del governo (“chi si becca la patate bollente”); inoltre come il sistema parlamentare, il governo è vincolato da un rapporto di fiducia con il Parlamento, quindi è necessaria una legge elettorale che garantisca sia la rappresentanza sia la governabilità. Il sistema semipresidenziale presenta comunque i rischi di una possibile deriva plebiscitaria, con l’uomo solo al comando che prende le decisioni, come auspicato da molti ambienti dell’estrema destra italiana che guardano a Trump, Bolsonaro, Duda e Putin come modelli.
Quale che sia la direzione che il governo Meloni decida di intraprendere, la riforma dovrà essere approvata con una maggioranza molto ampia, perché “la Costituzione è di tutte e di tutti”. La Costituente era composta da almeno tre anime politiche e ideologiche contrapposte tra di loro, eppure Iotti, De Gasperi, Einaudi, Nenni e gli altri riuscirono ad approvare il testo finale con l’88% dei voti favorevoli. La Costituzione, come patto sociale fondamentale, non può essere né di destra né di centro né di sinistra. Deve essere l’accordo di tutte e di tutti, perché sono scritte le regole al di sopra della politica di tutti giorni. Le riforme non dovrebbero quindi essere fatte solo dall’attuale maggioranza di governo.