di Samuele Franciolini
“Non ci devono essere vittime sacrificali, non si devono fare sacrifici umani… La DC fa quadrato attorno ai suoi uomini… Non ci processerete sulle piazze, non ci lasceremo processare.”
Così parlò al parlamento il Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro nel suo discorso alle Camere del marzo ‘77 in occasione del voto sulla messa in stato d’accusa dei ministri per i fatti concernenti il cosiddetto scandalo Lockheed, che riguardava una maxi tangente di 61 milioni di lire (circa 235 mila euro odierni) incassata, secondo la magistratura inquirente, dagli ex ministri della difesa Gui e Tanassi (il primo DC, il secondo PSDI) per facilitare l’acquisto di 14 aerei da parte dell’aeronautica. In queste poche parole è racchiuso lo spirito del partito che ha retto il governo del Paese per quasi 50 anni e che ha scolpito come nessun altro i destini della Repubblica. Il discorso di Moro, apparentemente un tentativo di difendere i corrotti all’interno del suo partito, è soprattutto l’espressione nel suo senso più alto della Repubblica dei partiti che la DC ha incarnato più di ogni altro. La stessa DC tuttavia, proprio perché partito più coincidente con l’apparato statale, più ingessato, più corrotto è stata quella a cadere con un tonfo più rumoroso sotto i colpi dei magistrati di Milano appena 25 anni dopo il discorso di Moro.
Il naufragio della Balena Bianca
Le ragioni di questa caduta, oltre ai suoi numerosi peccati, sono da ricercarsi anche nell’esaurimento della missione storica di un partito condannato al governo dall’assenza di un’alternativa possibile. Tuttavia essa, anche nel suo momento più basso alle elezioni del ‘92, raccolse oltre 9 milioni di voti (27%) e contava ancora, al momento della sua dissoluzione il 18 gennaio 1994 oltre 800.000 iscritti. Si pose quindi, all’alba della seconda repubblica, il problema della gestione di questo immenso lascito sia patrimoniale che umano. È opportuno ricordare, infatti, che fino a quel momento una schiacciante maggioranza della classe dirigente dello Stato, non solo quella politica ma anche quella amministrativa, era in qualche modo espressione o legata al partito che aveva tenuto le redini dell’esecutivo dal dopoguerra a quel momento. Questa situazione era frutto dell’occupazione sistematica dello Stato perseguita dalla Balena Bianca e, in misura minore, dagli altri partiti di governo; secondo la logica per cui politica, mondo degli affari e industrie di Stato erano indissolubilmente intrecciate.
Restava poi da considerare l’eredità politica e morale di quel cattolicesimo democratico ideato da Don Sturzo e poi rinnovato durante il fascismo da Dossetti, De Gasperi e La Pira, che più di tutte le altre ideologie era riuscito ad entrare in sintonia con lo spirito del paese e, almeno a parole, aveva indirizzato l’operato dello Stato per gli ultimi 50 anni. Questo spirito, che avrebbe dovuto essere cruciale per infondere uno vento di rinnovamento nei figli della DC, si è perso nel caos del berlusconismo e nella scelta obbligata di campo imposta dal bipolarismo. Ancora oggi infatti, 30 anni dopo la fine della Prima Repubblica, il centro sembra non riuscire a trovare una strada percorribile, orfano di una madre (perché la DC è donna come affermava già nel 1963 Umberto Eco) che riusciva, pur con i suoi innumerevoli difetti a formulare un progetto politico completo e coeso. I suoi eredi infatti furono litigiosi al punto che, come vedremo, lo scontro per la proprietà del simbolo rischiò di finire in tribunale, quanto incapaci di formulare un’alternativa al bipolarismo che andava formandosi o al più di portare in esso l’esperienza pluridecennale del cattolicesimo democratico.
Un nuovo nome e un nuovo partito
La riflessione sul cambiamento di nome del partito venne portata avanti a partire dall’assemblea costituente del luglio 1993 sotto la segreteria di Mino Martinazzoli, che apparteneva alla generazione dei cosiddetti “giovani” (era sessantenne) insieme all’ex PdC Giovanni Goria e all’enfant prodige Pierferdinando Casini. Si pensava che quella generazione avrebbe dovuto portare rinnovamento all’interno del partito. Essa fu formalizzata nel gennaio 1994, a soli due mesi dalle elezioni politiche, quando la maggioranza della vecchia DC confluì nel nuovo Partito Popolare Italiano, che scelse come segretario lo stesso Martinazzoli. La scelta del nome era un chiaro messaggio alla tradizione del cattolicesimo popolare. Era infatti coincidente con quella fatta da Don Sturzo nel 1919 quando fondò il primo partito che mirava a raccogliere le istanze dei cattolici italiani. Il nuovo simbolo inoltre, richiamava quello scudo crociato che per 50 anni era comparso in basso a sinistra sulle schede elettorali degli italiano, a evidenziare la continuità col vecchio partito. Questo prima passaggio, tuttavia, non fu affatto indolore, esso comportò infatti la scissione di una parte dell’ala sinistra del partito, vicina al mondo del lavoro e alle ACLI, che fondò il Movimento Cristiano Sociale. Il neonato PPI si presentò quindi alle elezioni del marzo ‘94 nello schieramento di centro costituito insieme al PRI e al Patto Segni, formazione di Mariotto Segni promotore del referendum per l’introduzione del sistema maggioritario di cui faceva parte anche l’ex PdC socialista Giuliano Amato. Questa coalizione, denominata Patto per l’Italia, ottenne il 15,63% dei suffragi alla Camera e il 16,69% al Senato, ma riuscì ad eleggere nei collegi uninominali solamente 4 deputati e 1 senatore. Il Mattarellum, infatti, con il suo impianto fortemente maggioritario, penalizzò fortemente gli schieramenti alternativi alla neonata destra berlusconiana e alla sinistra guidata da Occhetto. Questo fece sì che, malgrado la conservazione di circa un terzo dei voti della vecchia DC (in linea con le amministrative svoltesi l’anno precedente), i cattolici democratici videro la loro compagine parlamentare ridursi dagli oltre 300 rappresentanti della XI Legislatura, ai poco più di 60 della XII.
Sarebbe tuttavia riduttivo incolpare esclusivamente il sistema elettorale, la classe dirigente popolare infatti, pur avendo attivamente contribuito alla scrittura della nuova legge (che prende il nome da Sergio Mattarella, più volte ministro democristiano e membro di punta del PPI), si rifiutò di riconoscere il cambio di sistema che essa certificava. Il partito, illuso della propria forza o forse incapace di un cambiamento di paradigma, ripropose una ricetta che, nonostante il cambiamento di nome, rimaneva fondamentalmente un mantenimento dello status quo. Gli elettori, desiderosi di un netto cambio di passo, punirono duramente gli eredi della DC che, per la prima volta nella storia repubblicana, rimasero esclusi dal governo che si formò, il Berlusconi I. Bisogna infine ricordare come fu fondamentale, nella perdita di consensi, anche l’estrema corruzione del partito-Stato che, nonostante fosse cosa nota da anni, venne per la prima volta esposta pubblicamente dai magistrati del pool di Mani Pulite. La DC era stata infatti, insieme al PSI e agli altri partiti di governo, la formazione politica più colpita da arresti ed avvisi di garanzia. Ai processi di Milano si aggiunse, poi, il rinvio a giudizio di Andreotti a Palermo per associazione a delinquere di stampo mafioso. Il colpo sferrato all’uomo che più di ogni altro aveva incarnato la politica cattolico-democratica degli ultimi 50 anni ebbe gravi ripercussioni sulla credibilità dei membri del suo partito che venivano percepiti dai cittadini come “incapaci e mafiosi” (come recitava Giorgio Gaber nel suo monologo Qualcuno era comunista). Tuttavia, è doveroso ricordare che lo stesso Martinazzoli, profondamente conscio del sentimento di disaffezione degli elettori verso la DC e della stanchezza della propria classe dirigente, decise di non candidarsi alle politiche e invitò molti altri notabili democristiani a fare lo stesso.
Il Berlusconismo e l’esplosione
A fare le spese del fallimento della coalizione centrista è in primo luogo il segretario del Partito Popolare, che si dimette all’indomani delle elezioni e viene eletto, nell’autunno dello stesso anno, sindaco di Brescia, sua città d’origine con un’inedita coalizione di centrosinistra che racchiude, oltre a PPI e PDS, i Verdi. In questo senso proprio la parabola politica dell’ultimo segretario democristiano diventa emblematica del posizionamento degli orfani del cattolicesimo democratico, mettendo in evidenza una delle due possibilità per il centro nella stagione del bipolarismo. Lo stesso Martinazzoli non occuperà più alcun ruolo di primo piano nella dirigenza del partito e farà in tempo a correre, ancora una volta, per la presidenza della Regione Lombardia nel 2000 nelle file del centrosinistra, venendo doppiato da Formigoni, suo ex compagno di partito, sostenuto da FI e Lega.
Già prima della sconfitta annunciata, chi nel partito aveva saputo cogliere in che direzione tirava il vento, aveva fatto le sue mosse. È il caso di Pierferdinando Casini già parlamentare di due legislature che, in dissenso con la linea del partito, subodorando l’alleanza col PDS che già andava preparandosi per il futuro, si espresse a favore di un’alleanza col Polo delle Libertà. Egli, insieme a Clemente Mastella, uscì dal partito nello stesso mese della sua fondazione per creare il Centro Cristiano Democratico (CCD) che si presentò alle elezioni alleato con lo schieramento berlusconiano. Fu poi alla formazione del primo governo Berlusconi che le simpatie di parte del partito nei confronti del patron di Mediaset furono nuovamente messe allo scoperto: Il nuovo esecutivo riuscì ad ottenere la fiducia solo grazie alla provvidenziale non partecipazione al voto di quattro senatori popolari.
A una prima resa dei conti interna al partito si arrivò infine nel luglio del ‘94 in occasione del primo congresso ufficiale, svoltosi sempre a Roma ma non più al Palazzo Sturzo dell’EUR -di democristiana memoria- bensì nel meno prestigioso Hotel Ergife. Il partito si presentò spaccato: da una parte il mondo delle ACLI e della sinistra democristiana di Andreatta, Mattarella, Bindi e dell’ex segretario Martinazzoli; dall’altra la vecchia destra che sosteneva il neo-deputato Rocco Buttiglione. Questo posizionamento rifletteva in modo simmetrico il bipolarismo che andava creandosi nel paese in quegli anni: a favore o contro Silvio Berlusconi. La figura del Cavaliere, infatti, fresca di vittoria alle elezioni di marzo, ha inaugurato un ventennio in cui sarà assoluta padrona della scena politica del nostro paese. La linea che esce vincitrice da questo congresso aspro e combattuto è quella del neo segretario Buttiglione che riesce, nonostante i tentativi di mediazione dell’ex PdC e capo della corrente di base (sinistra DC) De Mita e grazie al sostegno dei cosiddetti centristi fra cui Marini e l’ex PdC Colombo, a mettere in minoranza la sinistra del partito. Risulta quindi estremamente ironico come, 20 anni più tardi sarà proprio la candidatura di Marini a Presidente della Repubblica a soccombere sotto i franchi tiratori di quello che ormai era diventato il Popolo delle Libertà. Elezione, quella del 2013, che vedrà, con due anni di ritardo, la vittoria di un esponente della sinistra popolare: quel Sergio Mattarella che aveva lasciato la direzione del Popolo, quotidiano del partito, in polemica con la linea politica scelta dalla segreteria di Buttiglione.
La situazione venne resa ancora più tesa dalla caduta, il 17 gennaio del 1995, ovvero a meno di un anno dalla sua formazione, del primo governo Berlusconi. Il nuovo esecutivo tecnico, guidato dall’ex ministro del tesoro Lamberto Dini e sostenuto da una maggioranza atipica costituita da PDS, Lega e lo stesso PPI, traghettò il paese alle elezioni dell’anno successivo. Con l’avvicinarsi delle urne il tema delle alleanze divenne sempre più pressante e, nonostante le numerose aperture del segretario all’apparentamento col centrodestra, la corrente di sinistra si fece sostenitrice, nelle persone dei due capigruppo Andreatta e Mancino, della candidatura del professore dell’Università di Bologna e democristiano moderato (sostenuto anche dal PDS di D’Alema), Romano Prodi. L’11 marzo lo scontro giunse al culmine quando il consiglio nazionale del partito votò, in disaccordo con la linea del segretario, contro l’alleanza con il centrodestra. Questo diede origine ad una scissione informale del partito tanto che, l’anno successivo, i candidati del partito popolare si presentarono alle elezioni in due liste separate: quella col nome del partito, alleata con l’Ulivo di Prodi e guidata dal nuovo segretario Gerardo Bianco, e i Cristiani Democratici Uniti (CDU), lista con un nome dal sapore teutonico, che raccoglieva i fedeli a Buttiglione, alleata con il CCD di Casini-Mastella, a sostegno di Berlusconi. La questione del simbolo venne risolta nello stesso ‘95 con un accordo fra i due partiti: il nome andò al PPI di Bianco e il tradizionale simbolo dello scudo crociato alla CDU. Questa perdita venne sfruttata dai membri del PPI che, impossibilitati ad utilizzare il vecchio simbolo per la disputa in corso, si presentarono alle elezioni regionali dello stesso anno con un nuovo slogan: “lo scudo c’è, la croce aggiungila tu”.
Dove è finita la DC?
Ed è proprio da questo slogan che noi cerchiamo di trarre delle conclusioni sull’eredità del cattolicesimo democratico dalla dissoluzione della DC ad oggi. Se infatti prima di mani pulite il partito dei cattolici era uno ed uno soltanto e che esso, nonostante raccogliesse una pluralità di posizioni fra loro antitetiche, marciava compatto, forniva stabilità al sistema-paese ed era in grado, quando necessario, di “fare quadrato attorno ai propri uomini”; dopo il 1993 si assiste ad un “libera tutti” estremamente desolante. Venuta infatti meno la necessità del governo dello Stato, il popolarismo contrasse una malattia che era propria della sinistra radicale, le scissioni erano all’ordine del giorno, alcune volte per questioni fondative dell’identità del partito, altre per personalismi di figure rimaste legate ad una grandeur di cui ormai non restava che il ricordo. Per dirla con Norberto Bobbio, che affrontò questo tema nel suo saggio Destra e Sinistra, la DC era stato un “centro includente” forte che era stato capace di attrarre su di sé partiti originati su posizioni ben più radicali: il PSI prima e il PCI poi.
Venuta meno questa forza attrattiva, il mondo cattolico democratico si ritrovò stirato fra due poli troppo in opposizione e finì per sfilacciarsi. Rimane quindi da rispondere alla domanda: che fine ha fatto la DC? Sarebbe facile rispondere che i voti della DC, o comunque buona parte di essi se li è presi Berlusconi, come ampiamente dimostrato dagli istituti di sondaggi. Dove è finita, però, l’eredità politica e morale del partito che per 50 anni ha retto i destini del paese? Questa è inevitabilmente confluita nell’unico partito rimasto degno di questo nome, quel partito, il nostro, che per molto tempo si è ritrovato condannato al governo, che troppo spesso è stato lacerato dalla lotta tra correnti e che si è ritrovato ad eleggere, per la seconda volta, un ex democristiano al Quirinale. Questo, a prescindere dalle posizioni personali, è un tema con cui ci ritroviamo a dover fare seriamente i conti senza il quale qualsiasi discussione sull’evoluzione del partito, rimane un discorso incompleto.