Da decenni si discute di riformare la Costituzione per risolvere il problema dell’instabilità dei governi e della lentezza per l’approvazione delle leggi. Alcune forze politiche propongo di cambiare il sistema di governo, altre di riformarlo e altre ancora di non cambiare la Costituzione. Qual è quindi la soluzione migliore? Vediamolo. Leggi gli altri articoli di RiCostituzione qui
di Manuele Oliveri
Iniziamo con una premessa: il Governo Meloni ha un rapporto complicato con le promesse elettorali. La propaganda è uno strumento molto facile da usare finché ci si trova all’Opposizione, ma quando si passa al Governo mantenere gli impegni diventa molto più difficile. La Presidente del Consiglio, nella sua conferenza stampa del 3 novembre, ha dichiarato che la “madre di tutte le riforme”, ovvero la riforma costituzionale sul “Premierato”, verrà portata avanti dalla maggioranza per rispettare gli impegni presi durante la campagna elettorale.
Tanto per cambiare, non è così: il programma della coalizione di centrodestra prevedeva l’introduzione del semi-presidenzialismo,
eleggendo direttamente il Presidente della Repubblica e creando così maggiore stabilità. La bozza di riforma che invece arriverà a breve in
Parlamento è qualcosa di molto diverso, e che nasce all’interno di un sistema politico molto particolare come quello italiano. La proposta del Governo è quella di una riforma molto contenuta, agendo solo su 5 articoli (per contro, la Riforma Renzi-Boschi progettava di
modificarne 47). L’unica parte della Costituzione sulla quale si agisce in modo massiccio è quella che individua la modalità di incarico del
Presidente del Consiglio, attualmente nominato dal Presidente della Repubblica. Se la riforma dovesse entrare in vigore così come è oggi, la
quarta carica dello Stato diventerebbe invece eletta a suffragio universale e l’elezione avverrebbe quindi contestualmente a quella delle Camere, su un’unica scheda elettorale. La coalizione vincente riceverebbe poi un premio di maggioranza pari al 55% dei seggi (con modalità ancora da definire) per assicurare un solido margine per la fiducia al Governo. Cambierebbero poi le regole legate alle crisi di governo: oggi, in caso di sfiducia o dimissioni dell’esecutivo, la palla torna in mano al Presidente della Repubblica, che può scegliere se conferire un nuovo incarico o sciogliere le Camere e tornare al voto. In seguito alla Riforma, se il
Presidente del Consiglio eletto dovesse essere sfiduciato o dimettersi, al suo posto potrebbe essere nominato esclusivamente un parlamentare della maggioranza emersa dalle urne, e se anche quest’ultimo non dovesse riuscire a ottenere la fiducia, le Camere sarebbero automaticamente sciolte e si tornerebbe alle urne. Questa è la cosiddetta “norma anti-ribaltone”, che tanti malumori ha suscitato nelle forze di maggioranza, divise tra Fratelli d’Italia da una parte sarebbe favorevole all’applicazione del principio simul stabunt simul cadent, per cui in caso di caduta dell’esecutivo eletto si tornerebbe direttamente alle urne (come accade oggi per Comuni e Regioni), e Lega e Forza Italia dall’altra che preferirebbero invece un meccanismo di sfiducia costruttiva alla tedesca. Aspetti minori della bozza di riforma presentata dalla ministra Casellati riguardano la nomina dei senatori a vita, che verrebbero sostanzialmente aboliti (conserverebbero tale titolo solo i Presidenti della Repubblica emeriti), e la durata del mandato del Presidente del Consiglio, che verrebbe stabilito in 5 anni, pari a quello delle camere.
È interessante notare come questa riforma, pur prevedendo l’elezione diretta del capo dell’esecutivo, poco ha a che vedere con esempi simili in giro per il mondo. Ad esempio, con il caso di Israele, che a cavallo del nuovo millennio aveva introdotto un meccanismo per certi versi analogo: in questo secondo caso, tuttavia, l’elezione del premier avveniva su una scheda diversa da quella del Parlamento, e nessun premio di maggioranza agevolava la formazione di una maggioranza, tutti aspetti invece affrontati nella proposta del Governo.
È evidente che la riforma, allo stato attuale, è ancora alla fase embrionale, e molti aspetti dovranno essere limati e chiariti nel corso del dibattito parlamentare: in primis rimane aperta la questione della legge elettorale, la quale, pur essendo indirizzata dall’indicazione di un premio di maggioranza del 55% nel nuovo testo costituzionale, dovrà essere definita successivamente dal Parlamento, aggirando i rischi di incostituzionalità già incontrati dai c.d. Porcellum e Italicum. Una prima idea che salta subito in mente è quella della previsione di un ballottaggio tra le due coalizioni più votate in caso di mancato raggiungimento del 50%+1 dei voti, come già avviene nei comuni sopra i 15mila abitanti. Questa proposta non piace però al centrodestra, il quale teme che un doppio turno possa favorire la convergenza delle diverse forze di centrosinistra su un unico candidato. Qualsiasi proposta a turno unico dovrebbe però prevedere una soglia per l’attribuzione del premio, lasciando quindi aperta la possibilità che questo premio non scatti, con la conseguente elezione un Presidente del Consiglio privo di maggioranza. Un altro aspetto critico è quello della ripartizione dei seggi: al Senato questa deve avvenire su base regionale, ma se si dovesse votare per entrambe le Camere su un’unica scheda, come previsto da questa riforma, diventerebbe impossibile differenziare le liste dei candidati a deputati da quelle dei candidati a senatori. La “madre di tutte le riforme” si propone di dare stabilità a un sistema fragile come quello italiano, nel quale la durata media dei governi, in epoca repubblicana, è stata di circa 18 mesi. Il testo non prevede però modifiche sostanziali all’iter legislativo, al bilanciamento tra i diversi poteri e in generale al sistema istituzionale, proponendosi di risolvere tutto con pochi, piccoli interventi. La strada per l’approvazione sarà ancora molto lunga (le previsioni più ottimistiche del Governo parlano di 2025), e se anche si dovesse riuscire ad arrivare in fondo difficilmente si riuscirebbe a evitare la necessità di un referendum (dato che la sola Italia Viva, tra le forze di opposizione, si è detta disponibile a dare il proprio sostegno). Il percorso di questa riforma, insomma, è ancora tutto da scrivere.