Quattro miliardi di persone in oltre sessanta paesi sono chiamate alle urne nel corso del 2024. In tutti i continenti nazioni grandi e piccole, prospere e in crisi, libere e autoritarie si recheranno al voto. In uno scenario internazionale turbolento e imprevdebile i GD Milano vi offrono Global Election 2024, la rubrica che copre un intenso anno di elezioni globali. Leggi gli altri numeri qui
di Francesco Gunelli
Sabato 13 Gennaio 2024 si terranno le elezioni presidenziali e legislative a Taiwan.
La posta in gioco è il modo in cui Taipei gestirà le relazioni con la Cina nei prossimi quattro anni, in un contesto di peggioramento dei legami tra le due sponde dello Stretto e di aumento del rischio di un conflitto aperto tra Washington e Pechino che, in più occasioni, non ha escluso di impossessarsi dell’isola con la forza, nonostante le crescenti indicazioni che gli Stati Uniti potrebbero essere disposti a difenderla.
L’isola di 24 milioni di abitanti si trova di fronte a una decisione fondamentale per il suo futuro e per l’assetto geopolitico dell’intera regione. Entrambe le superpotenze osservano attentamente le elezioni, con un Giappone sempre più attivo, come abbiamo visto qui.
Le elezioni
La Presidente incombente Tsai Ing-wen, del Partito Progressista Democratico (PPD), terminerà il proprio mandato dopo otto anni di governo, come previsto dalla legge elettorale. Al suo posto, pronti a subentrarle, sono almeno tre i candidati con una possibilità di vittoria.
A meno di una settimana dalle elezioni, in testa ai sondaggi troviamo Lai Ching-te (PPD), l’attuale Vicepresidente. La sua campagna si è concentrata sulla continuità politica con l’amministrazione Tsai e, in particolare, sull’identità distinta di Taiwan rispetto alla Cina Popolare, puntando fortemente su una maggiore collaborazione con gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali.
Il principale sfidante alla presidenza è Hou Yu-ih, sindaco di New Taipei ed esponente del Kuomintang (KMT). Il KMT, letteralmente “Partito Nazionalista Cinese”, è, assieme al PPD, uno dei grandi partiti di Taiwan, di cui ha mantenuto le redini dal 1949 al 2000, forti di una retorica volta all’unificazione nazionale. Hou propone un ritorno a un dialogo attivo con Beijing, definendo le elezioni come “una scelta tra guerra e pace”.
Al terzo posto, l’outsider Ko Wen-je del Partito Popolare di Taiwan (PPT), il quale ha espresso posizioni intermedie, auspicando un mix tra politiche di deterrenza e dialogo con Xi Jinping.
Flashpoint internazionale
Taiwan (denominazione ufficiale: Repubblica di Cina) è al centro di contenziosi territoriali fin dalla sua proclamazione nel 1949, anno in cui Chiang Kai-shek si ritirò dal continente dopo essere stato sconfitto da Mao. Da allora entrambi i governi ne reclamano la sovranità. Il sistema delle “Due Cine” è continuato fino al 1971, quando la comunità internazionale, salvo poche eccezioni, scelse la Cina continentale come legittimo rappresentante dell’intera Cina.
Sotto impulso del Presidente statunitense Richard Nixon e, in particolare, del suo Segretario di Stato, Henry Kissinger, gli Stati Uniti decisero di riavvicinarsi alla Cina Popolare, trasferendo il seggio di rappresentante della Cina alle Nazioni Unite dal Kuomintang alla Repubblica Popolare Cinese. Nel 1979, rinnegando la precedente linea di condotta, gli Stati Uniti smisero di riconoscere Taiwan come Stato legittimo, continuando però a fornire armi e munizioni tramite il Taiwan Relations Act, forniture essenziali per consentire a Taipei di mantenere sufficienti capacità di autodifesa.
Da allora l’isola continua a vivere in uno status quo in cui non si dichiara indipendente ma gode di una indipendenza de facto sotto l’ombrello (bipartisan) americano.
Con l’ascesa al vertice del Partito Comunista Cinese di Xi Jinping si è assistito a una progressiva escalation retorica e militare da parte di Beijing nei confronti di quella che viene considerata una “provincia ribelle”. Lo scorso agosto abbiamo assistito alla più grande esercitazione militare mai condotta dalla RPC nel Mar Cinese Meridionale in risposta alla visita del Vicepresidente Lai negli Stati Uniti.
Lo scorso novembre, a margine della Conferenza APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation), Biden ha invitato Xi a “rispettare il processo elettorale” a Taiwan, e il presidente cinese ha invece chiesto di “smettere di fornire armi a Taiwan”, perché “la riunificazione è inevitabile”.
Il futuro
Indipendentemente dall’esito delle elezioni, la regione del Sud-Est asiatico continuerà ad aumentare di importanza geostrategica nei prossimi anni. L’ascesa del gigante cinese e la sua volontà di espansione verso l’esterno non può che avere il suo primo, vero banco di prova a Taiwan, la provincia da sempre reclamata come “sacra terra cinese”.
La retorica costruita dalla Warrior Wolf Diplomacy di Xi Jinping (letteralmente “diplomazia del lupo guerriero”: cercare il confronto, aggressività nell’azione esterna) non può esprimersi altrimenti se non nella competizione “calda” con l’altra superpotenza globale nel Pacifico.
A oggi è improbabile che si arrivi a una riunificazione per via diplomatica, ma un eventuale conflitto tra Cina e Taiwan avrebbe serie ripercussioni globali, anche per noi europei. Taipei è un partner critico per l’Occidente per alcune materie prime, per esempio il carbonio, ma soprattutto nel campo dell’alta tecnologia; la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company produce da sola il 60% dei chip e semiconduttori utilizzati in tutto il mondo. Controllare l’isola vuol dire controllare il progresso tecnologico, fintanto che Stati Uniti ed Unione Europea non si muniranno di filiere proprie.
Le due guerre in corso, nella Striscia di Gaza e in Ucraina, hanno mostrato le limitazioni della macchina politico/militare statunitense nel fornire rifornimenti adeguati, specialmente a Kyiv. Dovesse sorgere un altro fronte nel Pacifico, il Presidente degli Stati Uniti (Biden o Trump che sia) si troverebbe di fronte ad una scelta ardua. Cosa sacrificare?