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di Samuele Appignanesi

 

Le lingue hanno potere nelle nostre vite, hanno un impatto sul modo in cui vediamo il mondo e le altre persone. Quando vengono usate come strumenti di violenza e distruzione, il ricordo del dolore che hanno causato rimane ancorato alle parole, anche se non lo riconosciamo. Ci sono, tuttavia, persone la cui vita è stata influenzata da quella storia di discriminazione e che hanno sperimentato il lato oscuro del linguaggio. Il razzismo, il sessismo e l’etero-cis-normatività sono costantemente perpetuati attraverso un linguaggio oppressivo, ma come possiamo comunicare nuove idee se ci rifiutiamo di parlarne? Questo è il tema di una riflessione che è rappresentata al meglio nelle opere di Adrienne Rich e Toni Morrison.

Il titolo di questo articolo è una citazione dalla poesia “The Burning of Papers Instead of Children” di Adrienne Rich, apparsa nella raccolta The will to change. In quest’opera la poetessa sente racchiusa nella lingua inglese la storia del dolore, della cancellazione e dell’oppressione. Quando il suo vicino è sconvolto dal rogo di un libro e dice che gli ricorda Hitler, la poetessa sa che la vera oppressione è contenuta in quegli stessi libri, nelle parole che usano e nel modo in cui le usano. Il rogo dei libri non la spaventa perché “so quanto fa male bruciare”. Rich sa come si sente il fuoco quando è diretto verso le persone, invece che verso la carta, sa che le stesse persone che sono inorridite nel vedere un libro bruciato hanno ignorato il rogo delle persone. Il dolore, che accompagna il linguaggio in qualsiasi contesto lo si utilizzi, la porta a sognare un mondo in cui questa violenza e questa perpetua incapacità di esprimere se stessa e le proprie esperienze siano finite, un ritorno ai segnali di fumo, a una comunicazione che non sia intrinsecamente una violenza.  Rich, però, è anche consapevole del fatto che il linguaggio è oppressivo perché è potente, è il mezzo attraverso il quale possiamo cambiare la realtà. Per questo accetta di usarlo nelle sue poesie, anche se la ferisce: “Conoscenza dell’oppressore/ Questa è la lingua dell’oppressore/ Eppure ne ho bisogno per parlarti”. Anche se il linguaggio porta il peso di secoli di oppressione, ha anche il potere di esprimere l’opposizione, la resistenza. Il silenzio non potrà mai portare la libertà, il silenzio è il linguaggio degli oppressi, il linguaggio è necessario per il nostro nuovo mondo.

Nel corso della storia, il caso in cui l’importanza e il potere del linguaggio sono meglio visti è durante il primo secolo della colonizzazione britannica dell’America. Quando i neri arrivarono in America come schiavi, furono costretti ad abbandonare e dimenticare la loro cultura per essere spinti in quella occidentale. In questa situazione di sradicamento forzato e violento, è nata una lingua nuova e diversa, e intorno ad essa un’intera cultura, che vede la sua origine nello spargimento di sangue, ma è in grado di contenere la speranza e la lotta per la libertà portata avanti attraverso i secoli. Ad oggi, l’inglese vernacolare afroamericano (AAVE) non è riconosciuto come lingua ed è trattato come “inglese scorretto“. Tra i tanti che, negli ultimi anni, hanno difeso la posizione e l’importanza di questa lingua c’è Toni Morrison.

Il filo conduttore di tutte le opere di questa autrice è il desiderio di trasmettere la storia della sua comunità, di esprimere la bellezza della cultura afroamericana. Toni Morrison ha avuto un impatto straordinario sul modo in cui la cultura nera è considerata nei contesti letterari, i suoi punti di vista provengono da una prospettiva che è stata continuamente ignorata. Nei suoi libri l‘AAVE è diventato ciò che non era mai stato prima, una lingua letteraria, una lingua in grado di esprimere altrettanto, se non di più, dell’inglese americano standard. L’autrice credeva che l’arte dovesse essere sia politica che bella, dovesse tentare di contenere l’incontenibile e di abbracciare l’esperienza umana. Tutta la sua arte trova le sue radici nella sua comunità, nella sua storia, nella sua cultura e nelle sue tradizioni; l’arte non è un distacco dal mondo, ma la sua espressione più potente. Sfida i nostri presupposti e le nostre convinzioni nel suo rifiuto di adattarsi agli standard letterari occidentali.

La sua sfida allo status quo è espressa al meglio in Beloved, in italiano “Amatissima”. Questo romanzo, ambientato dopo la guerra civile americana, è stato ispirato da una storia vera di una madre schiava che ha ucciso la propria figlia per risparmiarle una vita da schiava. Questi eventi così fortemente connessi alla violenza non potevano essere narrati usando lo stesso linguaggio che ha perpetrato quella violenza, una storia di oppressione non può essere scritta nella lingua dell’oppressore. Amatissima è un libro di dolore, trasmesso di generazione in generazione, frutto di una violenza che nessuna parola ha potuto, può o potrà raccontare pienamente.

Nell’accettare il Premio Nobel per la Letteratura (1993), Toni Morrison ha messo in luce il potere a doppio taglio del linguaggio, di chiarire e confondere, liberare e confinare, descrivere e offuscare l’esperienza umana. Quando si usa un linguaggio per opprimere, come è accaduto nella storia, nei confronti di una minoranza, non è solo l’espressione di violenza, è violenza in sé. Come ha detto l’autore: “Il linguaggio oppressivo non si limita a rappresentare la violenza; è violenza; non si limita a rappresentare i limiti della conoscenza; limita la conoscenza”. Questo linguaggio è morto, non permette nuove conoscenze o lo scambio reciproco di idee; è cristallizzato, e cristallizza la società intera.

Sia Rich che Morrison sono stati vittime di discriminazione, entrambe sanno cosa si prova a bruciare. Una in poesia e l’altra in prosa, entrambe sono accomunate dal desiderio di esprimere ciò che non è mai stato espresso prima, di sfidare il potere della cultura etero-cis-normativa patriarcale bianca e di trovare un modo di comunicare che non sia radicato nella violenza e nell’oppressione. È impossibile cambiare la società con lo stesso linguaggio che usa ora perché quel linguaggio è morto, abbiamo bisogno di parlare di pace e uguaglianza in modi nuovi, in grado di esprimere nuove idee e incoraggiare nuove discussioni. Abbiamo bisogno della “frattura dell’ordine/la riparazione della parola/ per superare questa sofferenza”.

Redazione GD

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La Redazione è lo spazio di approfondimento e confronto pubblico dei Giovani Democratici di Milano Metropolitana!

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