“Club Dogo”, basta il nome per indicare il gruppo che è passato alla storia come uno dei simboli musicali dell’Italia anni 2000, nell’identica misura in cui gli 883 sono simboli degli anni ‘90. Nel 2024, dopo un annuncio in pompa magna che ha previsto la partecipazione anche del sindaco di Milano, i dieci anni vissuti al suono della litania “non torneranno mai insieme” trascorsi dall’ultimo disco sono terminati: il 12 gennaio 2024 è uscito “Club Dogo”, decimo album dell’omonima formazione.
È indescrivabile il sentimento che serpeggiava nelle vene di qualsiasi ascoltatore di rap/hip-hop mainstream. Mainstream che, è bene ricordarlo, in Italia sono stati proprio i Club Dogo a portare, togliendo l’hip-hop dall’underground ed elevandolo (a livello di numeri) sulle frequenze radio e sui canali televisivi. Eppure, l’eccitazione per il ritorno dello storico gruppo nascondeva una curiosa aporia: per molte persone, tornava un’esperienza mai vissuta.
“C’era una volta in Italia”
Chi scrive questo articolo ha 23 anni (in dirittura d’arrivo per i 24), è dunque considerabile, se confrontato con l’età media degli iscritti ai GD nella Federazione di Milano, medio-tendente-al-vecchio. Eppure, nonostante questa età relativamente avanzata, anche l’autore di questo articolo non può dire di avere una vera e propria esperienza dei Club Dogo. Certamente, si ha avuto un’esperienza postuma della band, un’esperienza già all’insegna dell’inerzia e del passato: “questa era la musica di una volta”. Come è possibile, dunque, aver provato, all’uscita del disco, quel sentimento di piacere che solitamente si accompagna al momento in cui la nostalgia si annulla e ci si ricongiunge con ciò che da tempo si aspettava? In breve, come è possibile essere nostalgici di un passato che non si ha mai vissuto?
La domanda merita certamente di essere posta poichè si estende ben oltre l’ambito puramente musicale. Infatti, serpeggia in maniera sempre più prepotente un inspiegabile sentimento di nostalgia nei confronti della Prima e, in misura minore, della Seconda Repubblica fra i membri della Gen Z che vivono gli infausti giorni della Terza Repubblica (che definiamo, in questo articolo, dal governo Monti in giù). Ci sono alcune prove vistose di ciò, su Instagram (Zeitgeist del XXI secolo per antonomasia) la pagina @primarepubblica racconta quotidianamente le gloriose gesta di Moro, Berlinguere e Craxi. Il fatto che la pagina sia nell’ordine delle decine di migliaia di follower rappresenta un fenomeno apparentemente inspiegabile nell’epoca in cui il conflitto generazionale si presenta come particolarmente acuto.
Ciò che saltava all’’attenzione del sedicenne-diciassettenne che (ri)scopriva i Dogo era il loro netto atteggiamento politico, marcatamente underground e “da centro sociale” nei primi dischi, maggiormente scanzonato nel secondo. In ogni caso, indipendentemente dall’epoca, i Club Dogo denunciavano il sistema politico degli anni 2000 e servivano testi dal notevole taglio critico sui costumi e le contraddizioni dell’Italia di allora.
Così, nel 2006, i Dogo attacavano apertamente la riforma sulla legittima difesa presentata da Calderoli:
Grazie a Calderoli, vi facciamo tutti fuori/ Funerali con i fiori, tu ringrazia quei signori
E, nel 2013, ironizzavano rozzamente sul semi-bipolarismo della che si era venuto a formare nello spettro partitico italiano:
Ovviamente, parlare di politica negli anni duemila-duemiladieci (e forse ancora oggi) significa parlare dell’uomo che è stato il centro cartesiano intorno a cui il paese si è organizzato, significa parlare di colui che (Dante perdonaci) “move il sole e l’altre stelle” (Paradiso, XXXIII, v. 145): Silvio Berlusconi.
I Dogo non si sono mai tirati indietro davanti al Cavaliere e, in una traccia dedicata esplicitamente a descrivere gli anni 2000 Jake la Furia afferma:
Ed estendosi oltre la figura personale di Berlusconi, fino a colpire l’intera moralità del berlusconismo e dei berlusconiani italiani in un pezzo intitolato “Incubo italiano”:
Alla luce di questo passato fortemente ancorato ad un contesto storico e un quadro politico la domanda che molti ascoltatori in attesa del disco si ponevano era “come ritorneranno i Dogo dopo oggi che il Cavaliere non c’è più?”
Sembrava improbabile che passassero dalla critica-invidia-ammirazione per la lasciva vita di Silvio a barre che dovrebbero ironizzare sulle pizze sfornate da Salvini, sembrava parimenti assurdo passare dal sorridente ottimismo del ‘94 al rancoroso risentimento di Meloni & co. In egual misura, i Club Dogo non potevano aderire a quella melassa pseudo-attivista che fiancheggia il PD firmata Fedez&Ferragni, la cui credibilità è scarsa in quanto direttamente proporzionale all’attitudine hip-hop del Partito.
Ci si attendeva una risposta sul nuovo posizionamento dei Dogo dal disco e le premesse sembravano positive, la prima traccia motiva questa speranza nel dal suo titolo: C’era una volta in Italia. Eppure, la politica è quasi totalmente assente dal disco dei Club Dogo, ciò ha lasciato di malumore molti hardliner nostalgici del rap combattivo (al punto che è emersa anche una vaga polemica) impegnato nella denuncia sociale che rivolgono aspre critiche a quello basato sulla celebrazione del lusso e delle ricchezze.
Nondimeno, l’album dei Dogo è intriso di nostalgia, il tentativo della band è stato quello, infatti, di comporre 11 tracce che esprimessero l’essenza del loro stile (non è un caso che il disco porti il nome del gruppo) in quella che, presumibilmente, è l’ultima fatica del collettivo. Tuttavia, se è vero che la politica è da ritenersi una parte essenziale della produzione storica dei Dogo, non dovremmo forse concludere che, nel momento in cui essa è assente nel disco che vuole incapsulare la quintessenza del gruppo, i Dogo stanno tradendo la loro essenza o, in maniera meno tragica, mancando la promessa fatta?
L’esito logico è indubitalmente questo. In alternativa, è possibile un’altra lettura, più evanescente ed astratta, i Club Dogo nel loro ultimo disco non parlano di politica ma fanno politica: “politica culturale della nostalgia”.
Politica culturale della nostalgia
In maniera pretestuosa e autoreferenziale, ci sia permesso distinguere fra due concetti: politica e Politica. In minuscolo, la politica è il rosario che quotidianamente sgraniamo sulla attualità (ci schieriamo sulla Palestina, ribattiamo sull’Ucraina, auguriamo la vittoria di Biden, ci preoccupiamo per la crisi ambientale, critichiamo il disegno di legge del governo, auguriamo un’Unione Europea più forte e così via), il suo carattere è e deve essere pedagogico, banale e moraleggiante. In sostanza, deve essere un adatto tema di discussione in grado di colorare qualche ora di un giorno lavorativo. In un differente spazio sta, invece, la Politica, che esiste solo nei momenti kairologici della Storia e che si appella al Diritto, alla Rivoluzione, alla Giustizia, allo Stato e così via; una persona, quando vive in un’epoca disgraziata, assiste forse a 4-5 momenti di Politica e, solitamente, ne acquista piena coscienza da un libro dato alle stampe decenni dopo.
Ebbene, i Club Dogo passano, dopo un decennio, dalla politica alla Politica. Non parlano più di Calderoli, di televisioni o di Berlusconi, parlano di cultura hip-hop, tirano le somme di un movimento culturale che, nel bene o nel male, caratterizza “la musica” delle ultimi due generazioni. Ciò avviene con una poderosa operazione nostalgia che catalizza un sentimento di malinconica distanza verso un mondo che non esiste più e che gran parte delle persone non hanno direttamente vissuto.
Eppure, sta precisamente qui la forza della nostalgia, la storia è fatta e studiata affinchè le persone di oggi siano in grado di ripetere le vette che essa ha raggiunto. Così, i Club Dogo, istituzionalizzando la loro opera in un disco, hanno voluto costituire una sorta di monumento ad un’epoca storica (e a loro stessi) che appartiene volens nolens al patrimonio culturale della nazione e che, per questa medesima ragione, deve passare al vaglio critico del presente.
È dunque affascinante il legame a doppio filo fra “l’operazione nostalgia” dei Dogo e il nostro sentirci politicamente orfani della Prima Repubblica. Epoca che cede facilmente ad idealizzazione banali ma che, nondimeno, deve essere ritenuta un riferimento cruciale da cui trarre gli elementi migliori e più significativi, insegnamento che, su questa Redazione, avviene provato a comunicare attraverso le nostre interviste a Gianni Cuperlo e Pierferdinando Casini e i nostri articoli sul tema.
L’idea di fondo, a cui non possiamo fare a meno di credere e in cui continuiamo a riporre fiducia, è che attraverso un’appropriazione della nostra singolare contingenza in un dato momento storico, figlio di un’inerzia che emerge da un mondo passato, sarà possible domare intellettualmente per superare politicamente il tempo presente:
La musica che ho amato oramai è una festa in maschera/ Ma io ci sono andato soltanto con la mia faccia