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di Giovanni Soda

Dall’esplosione del furore bellico, due anni orsono, sembra che lo scontro si sia diffuso a macchia d’olio su una molteplicità di livelli. Dal fronte russo-ucraino, dove migliaia di persone (circa 415 mila soldati, secondo dati recenti) sono passate nella lugubre macelleria della Storia, al più ampio “conflitto” -che appare sempre più incombente- West vs Rest, di cui un fronte sembra essere Gaza e l’altro Taiwan. Infine, lo scoppio della violenza nel mondo ha prodotto un certo sconquasso anche all’interno delle nostre menti, dei nostri sistemi di valori e della nostre certezze, rendendo sinistramente attuali le parole con cui Freud commentava gli effetti psichici dello scoppio della Prima Guerra Mondiale:

“Ci sembra che mai un fatto storico abbia distrutto in tal misura il prezioso patrimonio comune dell’umanità, seminato così profonda confusione nelle più chiare intelligenze, degradato tanto radicalmente tutto ciò che è elevato. […] Il singolo, che non sia egli stesso combattente e non sia quindi divenuto un semplice ingranaggio della macchina da guerra, si sente tutto smarrito e inibito nelle sue facoltà”

(S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, p. 35)

 

È probabilmente questa esasperazione violenta a rendere particolarmente animoso anche il dibattito pubblico sul tema dell’Ucraina, dove le parti si consumano in accuse reciproche di complicità con sanguinosi dittatori o progetti distopici di annientamento mondiale. 

Che cosa è rimasto dell’Unione Sovietica?

A complicare ulteriormente il quadro interviene la dimensione “posizionale” del conflitto, la triste tendenza a dividere il mondo in raggruppamenti stagni destinati allo scontro frontale (precisamente come fanno, seppure con una dose assai minore di violenza, le squadre sportive) porta una generica difficoltà di distinguere i punti di vista in gioco. Si assiste ad una generica difficoltà di capire che cosa passi nella testa di Putin, Zelensky, Xi Jinping, Biden, Von der Leyen e così via poiché questo conflitto non ha solamente dato il colpo di grazia ad una serie di accumulare e vetuste certezze, ma esso ha anche fatto implodere la Storia. 

Come è stato osservato, ciò con cui facciamo i conti al giorno d’oggi è lo sfasamento temporale, il time lag, tra la caduta dell’URSS nel 1991 e il suo lascito irrisolto. L’Unione Sovietica è scomparsa ma alcuni sue schegge ancora si aggirano per il mondo, al di là della situazione ucraina, il bollente conflitto del Nagorno-Karabakh, l’invasione della Georgia, l’infelice destino della Bielorussia e il fragile equilibrio in cui si compattano le stan-countries. Inoltre, derivano dalla medesima situazione anche problematiche più vistose e urgenti per noi europei, è l’atteggiamento dei paesi del Gruppo di Visegrad, specialmente quello di Polonia e Ungheria.

Tralasciando lo spirito nazionalista e bellicista del governo di Varsavia, l’Ungheria costituisce un problema sempre più significativo per l’UE. Viktor Orban si è a più riprese mostrato scettico sul sostegno alla causa ucraina arrivando, recentemente, ad affermare che la vittoria di Trump (la cui stretta relazione con Orban è assai nota) questo novembre porterà alla conclusione della guerra tramite il taglio assoluto dei fondi dedicati alla causa

10 gennaio 2024: il finto scandalo delle armi in Ucraina

È precisamente il comportamento del leader ungherese ad aver costituito motivo di frizione alla più recente votazione in Parlamento sull’invio delle armi in Ucraina, datata 10 gennaio 2024. Per quanto il supporto militare a Kiev sia passato con un’ampia maggioranza, il PD ha (correttamente) deciso di enfatizzare la necessità di accompagnare lo sforzo individuale italiano con una maggiore coesione a livello europeo, superando le opposizioni di Orban, con cui il governo condivide ideologie e –presto- partito.

 In questo senso, Gianni Cuperlo, intervenendo alla Camera (video disponibile qui), ha enfatizzato le responsabilità della maggioranza nel rendere conto dell’operato del governo e delle sue scelte. L’intervento dello storico deputato dem enfatizza un punto che appare fondamentale: non è semplicemente sufficiente limitarsi agli slogan, affermare che Kiev “lotta per la democrazia” o che ha il “diritto a difendersi”, occorre anche capire perché si decide che una certa strada deve essere percorsa e, ancora di più, come percorrere una data strada. Inviare armi tramite la giustificazione di uno sforzo collettivo europeo per la difesa-della-democrazia senza superare l’opposizione interna all’Unione di paesi e leader reticenti all’invio è, senza alcun dubbio, una fallacia che necessita di essere rielaborata.

Ovviamente, la scelta del PD di astenersi dalle mozioni della maggioranza (prontamente avallate, invece, dal Terzo Polo) che hanno sorvolato sul problema-Orban, la decisione di voler provare a vedere un quadro maggiormente complesso della questione oltre la dicotomia no-armi-si-Putin vs si-armi-no-Putin è stata accolta con scandalo e sdegno dai media. Così, il Post ha titolato “il PD inizia ad avere qualche dubbio sulle armi in Ucraina” (visualizzabile  qui), un titolo generosamente ambiguo e acchiappalike che lambisce i confini dell’ ingannevole. Molto più spinta, in quanto decisamente più estremista, è stata la stampa di destra, nello specifico sulle colonne del Foglio, il supposto quotidiano liberale che si prodiga in una difesa a spada tratta del governo e del suo liberalissimo alleato Orban accusando, sostanzialmente, il PD di stupidità (visualizzabile qui). 

L’opera di sartoria politica

Superando il momento in cui il tentativo di provare a valorizzare le sfaccettature e gli orpelli del discorso viene accolto con sdegno, ciò che è possibile mantenere, come lezione, è che una scelta politica (nel nostro esempio, il supporto alla causa ucraina) richiede una certa operazione di “sartoria” politica, vale a dire di taglio e cucito, così come di affinamento concettuale. 

Per quanto si tragga il piacere proprio della pigrizia e della passività dal limitarsi al si-vs-no e al bianco-contro-nero, è assai probabile che la politica, nelle sue espressioni migliori, fosse più di questo. Provando a fuggire dal battibecco quotidiano per andare al livello dell’astrazione, possiamo chiamare in causa un libro del 1989 in cui il filosofo sloveno Slavoj Žižek sostiene che ogni posizione ideologica sia il prodotto di un’arte di ricamo. L’esempio portato merita attenzione: 

“Prendiamo ad esempio l’ecologismo: la sua connessione con altri elementi ideologici non è determinata in anticipo; si può essere ecologisti statalisti (se si crede che solo l’intervento di uno Stato forte possa scongiurare la catastrofe), ecologisti socialisti (se si individua l’origine dello spietato sfruttamento della natura nel sistema capitalistico), ecologisti conservatori (se si afferma che l’uomo deve ritrovare le sue radici nel suolo nativo), e così via; il femminismo può essere socialista, apolitico; perfino il razzismo può essere elitario o populista… La «ricamatura» attua quella totalizzazione mediante la quale è interrotta, arrestata la fluttuazione degli elementi ideologici, vale a dire, essi diventano parte del sistema di significato”.

Senza seguire eccessivamente i ghiribizzi e le stramberie in cui solitamente vagheggiano i libri di filosofia, ciò che Žižek sostiene è che gli scontri fra visioni politiche non possono restare ancorati in singole parole, specialmente quando esse sono estremamente sovraccaricate di significati come “giustizia”, “libertà”, “progresso” e così via. 

Ora, è necessario domandarsi se, forse, lo stato di salute del nostro dibattito pubblico circa la questione russo-ucraina non stia venendo meno a questa fondamentale operazione di sartoria politica. Forse, il peso della discussione e la brutalità dell’evento ci rendono nervosi, ci fanno tremare le mani al punto da rendere impossibile l’atto di inserire il filo nella cruna nell’ago. 

È necessario, poiché ci manca disperatamente, tentare di superare l’impulsività sociale che ci porta a questa sorta di catechismo dove ogni posizione deve semplicemente superare un controllo di coerenza con la formula sloganistica divulgata. Lo stesso Žižek ha, in una certa misura, compiuto questo superamente in un articolo dove, sostenendo la necessità di garantire massimo supporto all’Ucraina, si è domandato What does defending Europe mean? (visualizzabile qui). La risposta offerta è lapalissiana e di immensa rilevanza per tutti noi, “difendere l’Europa” significa “persuadere altre nazioni che l’Occidente può offrire loro delle scelte migliori rispetto a quelle di Russia e Cina”. E l’unica via per raggiungere ciò sta nel cambiare noi stessi attraverso un radicale sradicamento del neo-colonialismo, anche quando esso si presenta sotto la forma di aiuto umanitario”¹

Al di là della giustezza di ciò che Žižek sostiene, è cruciale, per noi e per chiunque faccia politica, domandarsi che cosa “sostenere l’Ucraina” significhi. A due anni dallo scoppio del conflitto è necessario impegnarsi affinché venga elaborato un senso progressista, socialdemocratico ed europeista di aiutare ed assistere l’Ucraina. Solo così, sarà possibile politicizzare anche una questione che è puramente politica e che stiamo vivendo come tristemente depoliticizzata, trasformata in una penosa questione di morale o -peggio- di tecnica. 

È attraverso la capacità di elaborare per noi e per la nostra generazione una “visione del mondo” che potremmo restituire un quadro più pieno e completo della posizione politica, che saremo capaci di ascoltare e di riconoscere i punti di forza di quelle voci critiche che contestano la nostra posizione in nome di valori condivisibili. In questo senso, l’obiezione di M5S e AVS secondo cui il rialzo delle spese militari connesso all’evolversi della situazione internazionale comporta un preoccupante sacrificio nella spesa pubblica per la sanità e per l’ambiente, non può essere presa sottogamba da chiunque si identifica come “socialdemocratico”. Invece di rispondere con sdegno, disgusto e arroganza a quella che è a tutti gli effetti una preoccupazione legittima, bisogna cercare di dimostrare, attraverso il proprio cucito ideologico, che, contrariamente a ciò di cui si viene accusati, un rialzo delle spese militari -così come il sostegno alla causa ucraina- è perfettamente coerente con i valori di libertà ed uguaglianza su cui si fonda la nostra visione. 

Parallelamente, la capacità di delineare nettamente il proprio posizionamente attraverso una serie chiave di valori permette di resistere a facili formule, dinamiche polarizzatrici e volgarità di vario genere che, nel dibattito pubblico, abbondando e di cui abbiamo sempre meno bisogno.  

Secondo un’illustre formula, la guerra continua la politica con altri mezzi, noi non dubitamo della verità di questa affermazione, anzi, ne riconosciamo una piena validità. Serve, però, una specificazione ulteriore, la guerra continua la politica ma non la sospende. La politica non sfugge al fragore delle armi, decide se queste debbano sparare: gli slogan non bastano più, a due anni dallo scoppio del conflitto l’aiuto all’Ucraina e l’opposizione a Putin non passa unicamente dalle armi, dai soldi e dalle manifestazioni di solidarietà; ora servono anche idee, prospettive, valori e un’immensa dose di coraggio.


¹ Persuade other countries that the West can offer them better choices than Russia or China can. And the only way to achieve that is to change ourselves by ruthlessly uprooting neo-colonialism, even when it comes packaged as humanitarian help.
Redazione GD

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La Redazione è lo spazio di approfondimento e confronto pubblico dei Giovani Democratici di Milano Metropolitana!

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