fbpx

di Serxho Marku

KATËR I RADËS: UNA STRAGE DI STATO

[la fonte dei fatti narrati e delle citazioni di questo articolo è il libro Il naufragio, morte nel mediterraneo di Alessandro Leogrande, visualizzabile qui ]

Ventisette anni fa la tragedia di Otranto.

È Venerdì Santo il 28 marzo 1997, giorno in cui la corvetta Sibilla, della Marina militare italiana, colpisce e affonda in acque internazionali la Katër I Radës, una motovedetta albanese stracolma di profughi. Le vittime del naufragio sono 81, in 31 avevano meno di 16 anni. I dispersi sono 24, mentre i sopravvissuti sono solo 34. 

Tre giorni prima il governo  italiano di centrosinistra, guidato da Romano Prodi, aveva siglato un accordo con il governo albanese per il contenimento del “traffico clandestino” di profughi, tuttavia l’accordo sarebbe dovuto entrare in vigore diversi giorni dopo l’incidente. L’accordo stabilisce che le forze navali italiane, mediante il fermo in acque internazionali e attraverso manovre intimidatorie, hanno il compito di dissuadere e dirottare i ‘barconi’ carichi di profughi verso i porti albanesi. Nel documento le manovre intimidatorie da mettere in atto vengono chiamate “harassment“. Per la prima volta l’Italia attua un blocco navale per respingere dei migranti.

La Katër I Radës era una motovedetta lunga circa 20 metri e larga meno di 4 metri, predisposta per avere un equipaggio di circa otto persone. Il 28 marzo 1997, in poco tempo, quasi 120 persone riescono a salirci a bordo. Gran parte di queste persone, soprattutto donne e bambini, si erano rifugiate nella stiva. L’Albania era sprofondata nella guerra civile da ormai diverse settimane, causata dal crollo di molte società finanziarie in cui gli albanesi investirono; perdendo di conseguenza i propri risparmi.

Mentre il governo di Sali Berisha impose il coprifuoco, il sud del Paese non era più controllato dal Governo e le città erano in mano a bande armate; il 13 marzo vennero chiusi l’aeroporto e gli scali del paese e, alla fine di marzo, i morti negli scontri erano già più di mille: è in questo contesto che il pomeriggio del 28 marzo la Katër salpa e inizia a dirigersi verso l’Italia. 

Intorno alle 17:00 la Katër viene individuata e raggiunta dalla fregata Zeffiro, che attraverso un megafono, intima all’imbarcazione albanese di invertire la rotta. La fregata tenta di ostacolare la marcia dell’imbarcazione attraverso manovre intimidatorie per più di un’ora e mezza. Infine le manovre vengono continuate dalla corvetta Sibilla, che è più piccola della prima e dispone di maggiore agilità. Quest’ultima tuttavia risulta essere 23 volte più pesante e 5 volte più lunga rispetto alla Katër I Radës. Alle 18:57 la Sibilla colpisce per la prima volta la nave albanese e a seguito di un secondo colpo arrivato poco dopo la Katër si ribalta affondando in pochi minuti. A causa dell’impatto tutte le persone che si trovano sulla coperta della nave vengono scaraventate diverse decine di metri, mentre gran parte di quelle che si trovavano nella stiva finiscono in fondo al mare insieme alla nave. Subito dopo l’impatto la corvetta italiana si allontana di molti metri abbandonando le persone in acqua, coloro i quali sono riusciti a nuotare e raggiungere la Sibilla si sono salvati mentre gli altri sono morti annegati. Inoltre la scialuppa che viene calata viene tenuta legata al suo scafo, lontano dai superstiti che sono ancora in acqua.

Il giorno dopo il disastro. Il 29 marzo, mentre i sopravvissuti raccontano la loro versione dei fatti, Irene Pivetti – ex presidente della Camera, che il 28 mattina ha sostenuto dalle colonne del “Corriere della Sera” la necessità di buttare a mare gli albanesi – ribadisce, sempre sul “Corriere” il suo credo elementare:“Io non cambio idea: a mare i delinquenti”. Poi aggiunge, senza tradire il minimo cedimento:

“Non li ho buttati a mare io… Questa può non sembrare la risposta giusta da dare, ma io intendo spiegare che il problema resta il medesimo: gli albanesi usano donne e bambini come scudi umani, come già è avvenuto in altre circostanze… Portano qui le loro bambine di dodici – tredici anni per farle prostituire… Il punto è che dovremmo cominciare a fare una volta per tutte un ragionamento serio di politica estera. Per esempio l’altra sera il Tg3 ha dedicato un lungo servizio alle piantagioni di droghe leggere in Albania… Noi non ne sapevamo nulla? E come mai?”

Nessun rappresentante del governo si dirige a Brindisi nelle ore successive alla tragedia per incontrare i sopravvissuti. L’allora presidente del Consiglio Romano Prodi si reca nella città da cui la nave è partita, Valona, sedici giorni dopo il naufragio. La folla che lo “accoglie” chiede giustizia mentre Prodi promette che il relitto verrà recuperato. 

L’unico rappresentante politico che incontra e ascolta i sopravvissuti e i familiari delle vittime è l’allora leader dell’opposizione Silvio Berlusconi. Piange mentre di fronte alle telecamere pronuncia le parole

“Son cose che sono indegne di noi e noi dobbiamo reagire a tutto questo. Vorrei che tutti gli italiani avessero avuto l’incontro che adesso ho avuto io con questa gente che ha perso tre figli, che ha perso la moglie, che sperava di venire qui a trovare un paese libero, democratico in cui potersi affermare. Ecco, queste sono cose che noi non possiamo permettere che succedano più nel nostro paese. Vi chiedo scusa”.

Nel 2008 sarà proprio lui in veste di presidente del Consiglio a firmare gli accordi tra Italia e Libia sui respingimenti dei migranti nel Mediterraneo. 

I giorni successivi alla tragedia i media rappresentano la falsa narrazione secondo la quale le responsabilità dell’incidente ricadono interamente sul comandante della Katër I Radës, Namik Xhaferi. Lo Stato albanese abbandona completamente i sopravvissuti al proprio destino, nessun rappresentante dell’Albania incontra i familiari delle vittime.

Il processo per accertare le responsabilità dell’affondamento inizia poco dopo l’incidente ma risulta essere lunghissimo. Le indagini vengono ostacolate e intralciate, molte prove “scompaiono” come i nastri contenenti le comunicazioni orali tra i comandi di terra che governano in quel momento le navi. Il filmato che mostra le immagini della Nave Sibilla colpire la Kater si interrompe inspiegabilmente poco prima dell’impatto. Nell’Aprile 1998 il PM Leonardo Leone De Castris chiede l’archiviazione del procedimento per gli ammiragli Alfeo Battelli e Umberto Guarnieri che in un primo momento risultano essere indagati insieme ai comandanti della Sibilla e della Kater. Nel farlo De Castris accusa la Marina militare italiana di aver manipolato le prove per ostacolare il processo nel raggiungimento della verità  Di conseguenza non viene fatto alcun processo per gli alti gradi delle forze armate italiane. 

Alla fine il processo si conclude con la condanna dei comandanti delle due navi: Fabrizio Laudadio, della Sibilla, viene condannato a due anni e quattro mesi; Namik Xhaferi, il comandante della Katër, viene condannato a tre anni e dieci mesi. Molte richieste di risarcimento nei confronti delle vittime vengono respinte, lasciando sprofondare nella delusione i familiari. A distanza di molti anni, alcuni di questi – come i due fratelli Xhavara che nel naufragio hanno perso moglie e figli – continuano a chiedere che il naufragio venga trattato come un “crimine contro l’umanità” e che il caso venga inviato alla Corte internazionale di giustizia.

Nel 2011 grazie all’intervento dell’associazione ‘Integra Onlus’, la nave venne salvata dalla demolizione, lo scultore greco Costas Varotsos la ‘trasformò’ in un monumento in ricordo della tragedia che da allora è possibile ammirare al porto di Otranto.

Alessandro Leogrande scriveva:

“Quel Venerdì Santo di morte costituisce uno spartiacque nella storia dei viaggi dei profughi e dei migranti verso l’Italia. Per la prima volta si mette in atto un tentativo di respingimento, attraverso quelle che vengono definite “azioni cinematiche di disturbo” o, in tono più aggressivo, “harassment”. Per la prima volta la Marina militare italiana, dopo un preciso accordo bilaterale tra l’Italia e un altro Stato non appartenente all’UE, che si affaccia sul Mediterraneo, mostra i muscoli. E il risultato è una tragedia. Una strage che ha colpe precise.

Quel Venerdì Santo di morte costituisce anche un paradigma, oltre che uno spartiacque. Negli anni a venire ogni qualvolta si parla di “respingimento dei clandestini” in alto mare è impossibile non andare con la mente a quanto è accaduto quella sera di marzo nel canale d’Otranto. Per questo, col tempo, quella tragedia non la si è nominata più, fino a dimenticarla. Il paragone avrebbe orientato ogni dibattito politico sul contenimento dei flussi migratori in altro senso. Invece, buttando a mare quella che poteva essere la pietra angolare di ogni discorso, quel dibattito è tornato ogni volta vergine, esattamente allo stesso punto di partenza del 25 marzo 1997, tre giorni prima dello speronamento, quando Dini e il ministro albanese si sono scambiati le loro lettere

Il naufragio della Kater i Rades costituisce una pietra di paragone per tutti gli altri naufragi a venire, non solo perché è stato l’esito delle politiche di respingimento e dell’isteria istituzionale che le ha prodotte. Non solo perché i termini della questione oggi sono i medesimi. Non solo perché, con totale cinismo o somma indifferenza, una forza politica di governo continua a parlare di blocchi navali nel Mediterraneo. Il naufragio della Kater i Rades è una pietra di paragone, perché, a differenza dei molti avvolti nel silenzio, è possibile raccontarlo”.

Redazione GD

Redazione GD

La Redazione è lo spazio di approfondimento e confronto pubblico dei Giovani Democratici di Milano Metropolitana!

Leave a Reply

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.