Da qualche anno, destra e sinistra in tutto il mondo hanno ricominciato a dibattere animosamente dei monumenti. A colpi di cancel culture e gender ideology, il confronto politico si gioca, al giorno d’oggi, anche sulla cultura, la memoria e i ricordi sociali. Statue?! è la rubrica dei GD Milano che intende affrontare la questione, analizzando casi da tutto il mondo per gettare luce su questa dinamica contemporanea!
di Elisa Di Chiara
Nel cuore del Giappone nord-orientale, lo scorso gennaio sono iniziati i lavori per l’abbattimento di un monumento in memoria dei lavoratori coreani deportati in Giappone nel corso della Seconda guerra mondiale. Il caso particolare, apparentemente isolato e passato quasi inosservato nella politica interna del Paese, rimanda ad un fenomeno di maggiore estensione, specchio di un cambiamento della concezione di memoria e di luogo di memoria.
L’immigrazione coreana in Giappone
La storia dell’immigrazione coreana in Giappone inizia a partire dagli anni ‘20 quando, sulla scia dell’industrializzazione avvenuta a fine Ottocento, la richiesta di manodopera all’interno del Paese aumentò drasticamente. L’annessione della Corea all’Impero giapponese nel 1910, diede vita ad un flusso di emigrazione volontaria di comunità di minatori e operai coreani che, anche se destinatari di un trattamento indubbiamente discriminatorio, furono accolte dal Giappone in un progetto di integrazione culturale.
Tuttavia, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, l’importazione di manodopera a basso costo venne istituzionalizzata e si stima che circa 75.000 coreani furono costretti ad un’emigrazione forzata tra il 1939 e il 1945. Entro il 1945, i coreani risiedenti in Giappone raggiunsero i due milioni; di questi, 200.000 furono reclutati nell’Esercito imperiale e 239.000 persero la vita nel corso del conflitto. Nonostante ciò, la stessa ondata nazionalista che investì l’Europa tra i due conflitti mondiali, si abbatté anche su queste comunità: dopo l’inasprimento del trattamento discriminatorio, sfruttati nelle fabbriche e emarginati dalla società, tutti coloro che ne ebbero la possibilità materiale, abbandonarono l’ostile Paese adottivo all’indomani della guerra.
A chi rimase, si stima circa 600.000 persone, non fu data la possibilità di una piena integrazione nella società: nell’immediato dopoguerra si affermò l’uso del termine zainichi (letteralmente ‘residenti in Giappone’) per indicare i coreani residenti in Giappone e i loro discendenti. Almeno fino agli anni ‘80, da normali contribuenti fiscali, coreani e discendenti coreani non poterono godere di un trattamento sanitario, pensionistico e welfaristico paragonabile a quello dei concittadini giapponesi.
Il memoriale di Gunma
Per non dimenticare questo cupo capitolo della Storia, una semplice stele venne eretta da alcuni abitanti della città di Takasaki, città della prefettura di Gunma, a 100 chilometri dalla capitale giapponese. Nel 2004 la prefettura di Gunma permise la costruzione della stele commemorativa a patto che essa non divenisse luogo di manifestazioni politiche.
Dieci anni dopo, la Prefettura decise di non rinnovare il permesso di installazione del monumento, denunciando la violazione di questa clausola: nel corso di un raduno tenutosi nei pressi del luogo di memoria, sarebbero state emesse quelle che la Prefettura definisce delle ‘dichiarazioni politiche’. Nonostante il tentativo di una parte dei cittadini di ottenere la revoca del diniego del permesso, nel giugno 2022 la loro causa è stata persa presso la Corte Suprema. In tal modo, il Giappone vede silenziosamente scomparire il più importante dei memoriali di realtà storica, la cui sopravvivenza nella memoria collettiva è messa a rischio dalla politica culturale del Paese.
A dimostrazione di ciò, vi è l’ allarmante episodio avvenuto, nel 2019, durante una delle più importanti manifestazioni artistiche giapponesi, l’Aichi Triennale.
Il caso dell’Aichi Triennale del 2019
Dopo soli tre giorni dall’inaugurazione dell’evento, una sezione dell’esposizione, situata nella città di Nagoya, capoluogo della prefettura di Aichi, venne chiusa di urgenza, a seguito di minacce rivolte al governatore di prefettura. Tra queste, una costituita da un messaggio mandato via fax: “farò visita al museo portando con me una tanica di benzina”.
Il motivo di queste intimidazioni sarebbe stata l’opera d’arte intitolata Statue of a Girl of Peace (in giapponese: Heiwa no shōjo-zō) presente all’interno dell’esposizione “After Freedom of Expression”. Il tema a cui essa rimandava, la schiavitù sessuale perpetrata dalle forze militari giapponesi in Corea, fu causa di pressioni anche da parte del sindaco di Nagoya. Secondo questi, l’opera, realizzata dai due artisti coreani Kim Seo-kyung e Kim Eun-sung, avrebbe ‘calpestato i sentimenti della popolazione giapponese’.
Le “donne di conforto”
L’opera d’arte, raffigurante una donna-bambina in vesti coreane seduta su una sedia di legno, ricorda le più di 400.000 donne costrette a prostituirsi dalle forze imperiali nei territori occupati dal Giappone durante la Seconda guerra mondiale. Sebbene la maggior parte di quelle che, con un triste eufemismo vennero definite comfort women, fossero di nazionalità cinese, i più vivaci movimenti di testimonianza e denuncia sorsero in Corea del Sud. Grazie a questi, più di quaranta statue simili vennero installate in tutta la Nazione e costituirono luoghi di memoria, manifestazione e denuncia di un crimine che aveva visto troppe poche condanne all’indomani della guerra. Ancora oggi, gli stessi movimenti, accusano il governo giapponese di sminuire la gravità delle azioni commesse in Corea, soprattutto nei testi scolastici, mezzo di formazione di generazioni per cui il ricordo costituisce l’unico mezzo di conoscenza di una realtà sempre più lontana.
I precedenti “incidenti diplomatici” tra Corea del Sud e Giappone
Prima ancora dell’episodio giapponese, le statue erano state motivo di tensioni diplomatiche tra i due Paesi. Nel 2017 il Giappone espresse il proprio disappunto circa l’erezione di una di queste nella città di Busan, che avrebbe violato un accordo del 2015 tra i due Paesi. Esso prevedeva il pagamento da parte del Giappone di un miliardo di yen (ad oggi, poco più di sei milioni di euro), a favore di un rapporto di collaborazione pacifica con la Corea del Sud. Questa si sarebbe basata sull’impegno da parte dei due Stati a “astenersi dal criticare e condannare la controparte all’interno della società internazionale, compresa quella delle Nazioni Unite”.
Di fronte alla reazione giapponese, lo stesso artista Kim Eun-Sung rivendicò il diritto della popolazione coreana ad erigere una statua sul proprio territorio. Accanto a lui, il gruppo di attivisti che avrebbe commissionato la statua, ribadì lo scopo di questa scelta: “rivendicare delle scuse ufficiali e un risarcimento legale per la politica colonialista e i crimini di guerra giapponesi e ricusare l’accordo del 2015 sulle “comfort women”.
Apparentemente, dunque, il riconoscimento dei crimini commessi dall’Impero giapponese a danno della Corea è fondamentale in primis per il mantenimento di un equilibrio tra stati. Ma, al di là della formalità, condizione necessaria alla diplomazia, quanta coscienza c’è attorno agli avvenimenti storici sopra citati? o meglio, quanto e perché il Giappone dimostra insofferenza nei confronti della rievocazione e della conseguente condanna di alcune pagine della propria storia?
La matrice di una tendenza negazionista
Senza asserire un’arbitraria equazione tra un partito di maggioranza di un paese e i particolari avvenimenti al suo interno, possiamo notare, nel caso giapponese, una tendenza all’occultamento di fatti e alla moderazione di toni la quale si pone all’interno di un quadro politico ben orientato. Dal 1955 in poi, con sole due eccezioni (nel 1993 e tra il 2009 il 2012), il Governo è stato in mano al partito conservatore, quello Liberal Democratico, all’interno del quale vi sono stati due personaggi politici che hanno assunto posizioni estremamente controverse agli occhi della comunità internazionale: il sindaco di Nagoya nell’episodio sopracitato, Takashi Kawamura, e l’ex Primo Ministro Shinzo Abe.
Nel 2012, l’attuale sindaco di Nagoya ed ex vice leader del Partito Liberal Democratico Kawamura espresse dei dubbi circa l’avvenimento dei fatti di Nanchino. Rifiutando di ritrattare le proprie posizioni, spiegò di essere figlio di un soldato combattente a Nanchino nel 1945: sulla base dei racconti del padre, memore dell’amichevole trattamento ricevuto dai cittadini cinesi, egli negò la possibilità che un tale eccidio si potesse essere verificato per mano giapponese.
Dall’altra parte, la posizione assunta da Shinzo Abe, Primo Ministro all’epoca dell’accordo del 2015, è stata a lungo discussa: secondo molti egli si limitò ad alludere ad un generico “traffico di umani”, senza evocare un responsabile, esentando in tal modo il Governo giapponese dall’obbligo morale di scuse ufficiali e risarcimenti legali.
Demolire i monumenti: è da progressisti o da conservatori?
Sulle note di questa domanda, volutamente semplicistica e provocatoria, possiamo concludere l’articolo. Preso coscienza dei fatti che avvengono dall’altra parte del Mondo, in un Paese materialmente lontano e poco compreso, ma vicino in termini di meccanismi politici ed economici, è necessario porsi numerose domande. Volgendo lo sguardo alle contestazioni che, in questi anni, hanno coinvolto numerosi monumenti italiani, bisogna chiedersi quale sia il ruolo dei monumenti. In prima istanza, comprendiamo che esso non sia evidentemente univoco: a dimostrazione di ciò, il fatto che, a chiedere la loro demolizione, siano in un caso i progressisti e nell’altro i conservatori. In seconda istanza, deduciamo, dall’insieme dei fatti trattati, che essi abbiano un ruolo nelle politiche statali e internazionali, comprovando posizioni nette su l’uno o l’altro tema. L’ultimo promemoria che potremmo trarre da una tale riflessione è la netta distinzione che intercorre tra un monumento memoriale e un monumento celebrativo. Se, infatti, quest’ultimo può essere messo in discussione col cambiare dei valori e dei modelli ideali, la memoria è, o almeno dovrebbe essere, indiscutibile ed eterna, e con essa i monumenti al suo servizio.