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Introduzione: Abbiamo intervistato Pierluigi Bersani, ex Presidente della Regione Emilia-Romagna, più volte ministro e protagonista indiscusso della Seconda Repubblica. 50 anni di politica alle spalle, dalla militanza giovanile in Avanguardia Operaia al ritorno nel Partito Democratico nel 2023. Abbiamo parlato di neofascismo, autonomia differenziata e PD con l’iconico segretario del quadriennio 2009-2013.


a cura di Elisa Di Chiara e Giovanni Soda

GD: All’inizio della sua attività politica uscito da Avanguardia Operaia lei entra nel PCI nel ‘72, perché non nella FGC (almeno così ci risulta)?

PLB: All’età di 21 anni avevo già alle spalle una lunga esperienza di militanza sia nel movimento studentesco che in ambito extraparlamentare. Ritenevo, pertanto, di avere già svolto un’esperienza di militanza politica giovanile. In quegli anni avevo un rapporto con la FGC simile a quello che avevo con il PCI: nella mia formazione – allora si diceva così – ero trotskista: critico del modello sovietico che mi appariva distante. Inoltre, essendo originario di un paesino dell’Appennino [Bettola, in provincia di Piacenza] dove i comunisti erano una estrema minoranza, mi trovavo ad essere subito “dirigente” piuttosto che “apprendista”.

GD: Avrà visto il servizio di Fanpage su Gioventù Nazionale (su cui si è anche depositata un’interrogazione parlamentare di recente), secondo lei perché la Destra italiana che oggi ci governa non è riuscita ad abbandonare la nostalgia del fascismo? 

PLB: Più che non riuscirci, non ci prova. La sostanza che alimenta questa nostalgia è una sostanza storica. Non dobbiamo pensare che con la Liberazione e la nascita della Costituzione Italiana, il fascismo sia scomparso in Italia […]. Il MSI, pur avendo al proprio interno delle correnti che puntavano alla normalizzazione, aveva una parte che continuò ad esistere senza mai riuscire a rompere i fili con una presenza dichiaratamente nostalgica, fino ad avere rapporti, seppur marginali, con vicende eversive: movimenti come Ordine Nuovo avevano dirigenti derivanti dal MSI. Questa presenza può essere celata o mascherata al momento opportuno. Tutto ciò – si badi – non va confuso con il problema dell’avanzata elettorale delle destre, che ha alla sua origine innumerevoli altre ragioni; il nucleo di questa parte politica, però non intende prendere le distanze e interrompere questi legami, in quanto si tratterebbe di un tradimento nel loro “codice”. Adesso, anche queste destre hanno preso l’onda della destra mondiale, salendo per la prima volta al governo.

GD: Alla luce delle recenti evoluzioni dobbiamo ritenere la svolta di Fiuggi un fuoco di paglia e pensare FdI come la continuazione del MSI o possiamo ritenere che qualcosa sia effettivamente cambiato?

PLB: Io credo che Fini, pur essendo cresciuto in un partito dalla logica ambigua, abbia provato seriamente a cambiare il Partito, a salvare il Partito conducendolo nel quadro democratico. La vera domanda è come mai non ce l’abbia fatta: probabilmente perché una parte di quel mondo lo considerò un traditore. Ricordiamo che il giornalista che fece l’inchiesta sulla villa di Montecarlo, che costituì l’inizio della fine di Fini, è stato posto dalla Meloni a capo del TG 1 e dunque premiato. Il nucleo ideologico e storico che trattiene l’evoluzione tentata da Fini guarda a una rivincita. Non dobbiamo illuderci del fatto che si accosterà alla Costituzione repubblicana. Piuttosto, guarda ad un nuovo inizio, che si sta ora concretizzando nel premierato. Quest’ultimo non rappresenta una vittoria di governo, bensì di un’ideologia. Non aspettiamoci una svolta di governatori liberali che guardino alla Costituzione antifascista.

GD: Ad oggi ci sono dei giornalisti che sostengono che la politica giovanile non abbia più senso e che vada totalmente assorbita da altre forme di politica come quella universitaria. A tal proposito, lei pensa che la politica giovanile abbia ancora un senso? Da ex segretario del PD, cosa pensa dei GD di oggi?

PLB: Nel corso della mia esperienza politica ho avuto l’occasione di incontrare molti giovani, quasi sempre in ambienti universitari. Ho potuto maturare l’idea che, innanzitutto, non è vero che i giovani siano disinteressati alla politica; ad oggi sono molti i giovani interessati alla politica e la loro sensibilità viene mossa dai grandi interrogativi dell’Umanità (la pace e guerra; l’ambiente; le migrazioni; il femminismo). Il punto di fondo è che queste motivazioni naufragano in una percezione di impotenza dovuta al fatto che manca la fiducia nei partiti: di fatto, non vedono un carro su cui salire.

Da questa consapevolezza, io ho maturato l’idea che non è affatto vero che non ci debbano essere organizzazioni giovanili. Il problema è che queste devono voltare la schiena al partito per farsi voce di una realtà sociale e di una generazione, in autonomia e in libertà. È necessario mettersi dentro alle cose senza sentire l’eccessivo gravame di essere i messaggeri di un partito.

Serve farsi una forza attiva laddove ci siano idealità e problemi sociali.

GD: Nonostante l’ultimo risultato positivo ottenuto alle Europee, molti hanno accusato il PD di aver presentato, alle ultime europee, una lista di candidati dalle posizioni troppo divergenti; secondo lei il PD di oggi deve ancora ricerca la vocazione maggioritaria o deve acquistare un’identità più definita?

PLB: Io non ho mai usato la parola “vocazione maggioritaria” in quanto contiene un equivoco molto serio: trasmette l’idea secondo cui possiamo fare da soli. Detto ciò, io ritengo che non ci sia nessuna contraddizione tra darsi un’identità comune leggibile e avere rapporti stretti con altre identità autonome e compatibili. Mi spiego con un esempio: noi non potremmo mai essere un partito del pacifismo assoluto, in quanto veniamo dalla Resistenza che non era, appunto, pacifismo assoluto; detto questo, anche le identità di pacifismo assoluto fanno parte del nostro universo, all’interno del quale sono necessari dei rapporti dialettici ma positivi. Io vedo come una grande occasione quella di includere ad esempio Tarquinio, Cecilia Strada. Ovviamente, questo non comprometterà la libertà di coscienza e la libertà politica. Insomma, persino il PCI, che era organizzato su uno stampo – diciamo – leninista se ne è inventate di cose per tenere rapporti veri e sostanziali con diverse opinioni che tuttavia convergevano in tema di progresso e uguaglianza. Non mi preoccuperai troppo di queste contrapposizioni.

GD: Rimarrei sul PCI, siccome quest’anno sono 40 anni dalla morte di Berlinguer desidero domandarle se lei ricorda la prima volta che lo incontrò e che ricordo ha del segretario

PLB: L’incontro più importante per me fu un incontro indiretto. Quando lui disse a noi giovani messi in crisi dalle esperienze estremistiche [degli anni ‘70] ma ancora distanti dalle posizioni del PCI “entrate e cambiateci” io lo presi sul serio, entrai con le mie idee e non mi pentì mai di questa scelta. Questo, pur non essendo un incontro fisico, è stato cruciale.

Invece, per quanto riguarda gli incontri fisici con Berlinguer devo innanzitutto dire che la cosa che mi ricordo meglio era il suo sguardo insostenibile, tanto era vivo, acuto e intelligente. E poi, l’incredibile serietà. Io ho un ricordo: 1980, terremoto in Irpinia, io guidavo gli aiuti dell’Emilia-Romagna. Lui fece a Salerno una riunione al mattino con alcuni dirigenti locali dell’area del terremoto e con coloro che portavano gli aiuti, tra cui io.

Quello stesso giorno, nel pomeriggio ci sarebbe stata la famosa direzione in cui venne chiusa l’epoca del compromesso storico, si prese atto della fine di quella fase e si lanciò l’idea dell’alternativa democratica.

Ebbene, quella mattina, mentre noi tutti riferivamo della situazione Berlinguer era lì che prendeva appunti su quello che dicevamo. Vedere Berlinguer che prende appunti mentre parli tu, che hai 28 anni, è qualcosa che fai fatica a dimenticare. Questo per dire la serietà, l’impegno e il rigore di quell’uomo.

Questa è la cosa che mi è rimasta più impressa, più dei congressi e delle altre cose.

GD: Una domanda sulla sua provenienza dalla provincia di Piacenza. L’Emilia-Romagna ha un tessuto sociale, economico e culturale molto simile a quello della parte meridionale della Lombardia. Nonostante ciò, le due tradizione divergono radicalmente, l’Emilia-Romagna è la roccaforte della sinistra italiana mentre la Lombardia è di destra. Lei come si spiega questa differenza di posizionamenti?

PLB: C’è una differenza che nasce all’esordio del dopoguerra quando emerge che in alcune realtà l’Emilia-Romagna e alcuni luoghi della Lombardia prossimi (soprattutto la provincia di Mantova) c’è una sinistra che riprende il filo delle esperienze socialiste di autogoverno del primo Novecento (cooperative, socialismo municipale ecc.) che vengono innervate in un partito riformista ma con un’organizzazione sostanzialmente di stampo leninista. Questo avviene più fortemente che in molti altri luoghi in Emilia-Romagna e con propaggini significative al di là del Po.

Poi, io ho una mia idea personale di carattere storico diciamo. Fondamentalmente, la storia dell’Emilia-Romagna è una storia di successo di meccanismi coesivi. L’idea è che non stai bene da solo, non stai bene se non stai con altri, che si raggiungono gli obiettivi stando insieme. Ora, l’Emilia è l’unica regione che prende il nome da una strada, la via Emilia. Il Po e l’esigenza di organizzare sia la difesa del territorio dal fiume che di gestire la grande infrastruttura hanno generato dei meccanismi coesivi di collaborazione. Nessuno può fare da solo, puoi fare solo in un’organizzazione reciproca. Io vedo che questa traccia è profonda nel territorio, non appartiene solo all’operato della sinistra ma proviene da una solidarietà con profonde radici storiche che la sinistra ha valorizzato ma non inventato.

GD: Un’ultima domanda che parte da questa sua ultima analisi. Recentemente l’idea di poter “fare da soli” è stata centrale nella recente legge sull’autonomia differenziata. Lei, che al netto delle distanze politiche conosce bene la Lega e aveva un’amicizia col suo fondatore – Umberto Bossi – ritiene che questa misura di oggi sia la realizzazione di quel sogno bossiano o ha una spiegazione diversa

PLB: L’origine della Lega è un’origine autonomista riferita al Nord ma aveva delle vocazioni e degli esempi che hanno poco a che fare con l’autonomia differenziata di oggi. Questa, è una riorganizzazione “ad Arlecchino” dello Stato italiano. Non abbiamo parlato di Nord ma dell’intero Stato riorganizzato.

Dire che questo deriva dal titolo V è una stupidaggine, perché la possibilità di differenziare le autonomie può avere una sua ragionevolezza se, per fare un esempio, si pone sul trasposto marittimo per la Sardegna secondo motivazioni oggettive e funzionale. L’autonomia deve essere fatta in modo che vada a beneficio non solo della regione ma anche del paese. Invece, qui il meccanismo è a la carte: ognuno sceglie la materia che vuole delle 23 in questione.

Facendo così noi configuriamo un paese la cui situazione non esiste nel globo terracqueo, perché non ci sarà mai nessuno Stato unitario o federale nel quale i sottosistemi abbiano la possibilità di prendersi le materie a volontà. L’idea secondo cui questo sarebbe un danno solo per il Sud è una colossale stupidaggine, noi pensiamo di fare il commercio estero al Nord su base regionale? Ma che idea è mai questa? Di cosa beneficia il Nord in questo disfacimento dello Stato?

Non ci vedo nulla dell’ispirazione autonomista e nordista originaria alla Bossi, è un’urgenza [elettorale] di avere una bandiera leghista affiancata al premierato di Fratelli d’Italia. Così invece di un danno solo ne abbiamo due. Bisogna reagire a tutto questo.

GD: Io terminerei qui, la ringrazio!

PLB: Grazie arrivederci!

 

 

 

Redazione GD

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La Redazione è lo spazio di approfondimento e confronto pubblico dei Giovani Democratici di Milano Metropolitana!

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