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di Jacopo Marchesi

In verità questo articolo è solo una recensione o un racconto di Bullshit Jobs: A Theory, scritto dall’antropologo, anarchico ed attivista americano David Graeber.

Era il 2013, erano passati cinque anni dal collasso di Leman Brothers e due dalla nascita del movimento Occupy Wall Street, quando è apparso sulla rivista radicale Strike! un articolo di David Graeber dal titolo On the Phenomenon of Bullshit Jobs in cui si attaccava frontalmente il sistema moderno di organizzazione del lavoro e l’inutilità di una grossa fetta dei lavori contemporanei.

L’articolo ha avuto un effetto dirompente e, nei successivi cinque anni, Graeber ha raccolto centinaia di testimonianze di persone impiegate in bullshit jobs (traducibile in “lavori del cazzo) per dare vita ad un saggio più corposo ed organico sul tema, che poi è quello di cui sto parlando ora.

L’assunto fondamentale è di carattere storico: nei primi anni ‘30 John Maynard Keynes aveva teorizzato che l’evoluzione tecnologica ci avrebbe portati a lavorare 15 ore a settimana. C’è stata l’evoluzione tecnologica prospettata, eppure ancora una grande fetta della popolazione è intrappolata (almeno) 8 ore al giorno in lavori senza senso.

Ma cosa sono questi lavori senza senso o, in maniera più bombastica, del cazzo? A costo di semplificare il messaggio di Graeber li dividerei in due fattispecie: abbiamo in primis tutti quei lavori che non servono a nulla, esistono per difetti strutturali del capitalismo, per l’ingigantimento delle burocrazie -non solo nel pubblico ma anche e sempre più nel privato- e per tappare buchi o risolvere problemi. Poi abbiamo lavori in cui sostanzialmente non si fa nulla e in cui non si lavora effettivamente se non per un paio di ore al giorno, quando va bene. In generale possiamo dire che c’è molta intercambiabilità tra le due categorie e spesso il dato comune è la mancanza di produzione di valore sociale, la mancanza di impatto (positivo) sul mondo.

A questo punto potremmo chiederci effettivamente se tutto ciò costituisca un problema, soprattutto relativamente ai lavori in cui non si fa nulla. Io, accogliendo il messaggio di Graeber, penso che tutto ciò crei un problema sociale e politico.

In primis è evidente che la sensazione di inutilità, l’ineffacia del proprio impatto sul mondo, causata da questi lavori del cazzo si traduca in risentimento e frustrazione da parte di chi è costretto a passare una grande parte del suo tempo impiegato in queste attività vacue.

Perché devo stare 8 ore in ufficio a fare cose di cui non importa niente a nessuno, che non avranno alcun impatto sulla società (nel migliore dei casi) e che fisicamente non produrranno niente? Spesso poi in questi uffici si esasperano delle dinamiche di controllo e gerarchia che inaspriscono il risentimento e la frustrazione di cui sopra (come avviene in The Office, ma senza la comicità e con solo il disagio), creando un “sistema sadomasochistico” (parole di Graeber) dal quale, però, non si può prendere pausa (“non puoi dire una safeword al tuo capo!”).

La situazione è ancora più paradossale in quei lavori in cui effettivamente si fa qualche attività per pochissime ore al giorno e poi stop: qualcuno potrebbe addirittura viverla come una benedizione, “ti pagano per lavorare 8 ore ed invece ne fai 2 e poi puoi cazzeggiare!”. Il problema è che non puoi cazzeggiare, perché il sistema di controllo oppressivo di cui abbiamo parlato ti porta a dover fingere di lavorare, amplificando ancora al massimo il risentimento e la frustrazione dei lavoratori. Risentimento che poi trova ancora più appiglio nella realizzazione che esistono lavori effettivamente sensati, i lavori di cura principalmente, ma anche di produzione di cose, e la loro relativa inaccessibilità causata dalle retribuzioni molto basse, perché se già fai un lavoro che di positivo ha un buon impatto sulla società, non ti aspetterai pure di poterci campare dignitosamente?

A questo punto potrebbe essere lecito chiedersi: come è stato possibile tutto ciò? Soprattutto in un sistema perfetto come il capitalismo (vorrei sottolineare l’ironia di perfetto per il lettore meno sagace), che mai tollererebbe uno spreco tale di risorse? Secondo Graeber vi è un mix di questioni, che vanno dal semplice bisogno del singolo lavoratore di avere una occupazione per arrivare a fine mese alla nascita di un vero e proprio feudalesimo manageriale. Ovvero quel fenomeno che crea innumerevoli lavori volti ad accrescere il “prestigio” delle classi dominanti della nostra società, soprattutto nella media dirigenza, e l’allungamento delle catene di produzione del valore, che sono sempre più catene di appropriazione e saccheggio del valore, redistribuzione di valore creato altrove, che quindi tollerano questo tipo di allungamento.

Ma se da un lato possiamo così giustificare la nascita di questi lavori, per contingenze materiali, come possiamo giustificare l’idea che al di fuori di quelle due tre ore di attività sensate si debba costringere le persone a rimanere in ufficio fino alle 18 (salvo che non siate aspiranti avvocati, in quel caso anche le 18 saranno troppo presto)? Abbiamo da un lato l’idea che il lavoratore metta in vendita il suo tempo e lo metta per quella quantità di ore, e dall’altro -forse ancora più pregnante- l’idea che il lavoro abbia un valore in sé. Non importa cosa tu faccia, non importa l’utilità dell’attività che stai compiendo, l’importante è che tu lavori, perché questo è ciò che dà valore alla vita umana, in un’idea quasi religiosa (l’origine di questa teoria viene d’altronde dal mondo calvinista) dell’impegno.

E così ci ritroviamo a giustificare uno spreco gigantesco di vite umane, buttate a fare cose che non interessano a nessuno, imprigionate in uffici tremendi in cui si perpetuano meccaniche di controllo e sopraffazione. Tutto tempo in cui queste stesse persone potrebbero dedicarsi a ciò che è altro dal lavoro, e quindi la cura e più propriamente, la vita. Dedicarsi agli affetti, alla progressione culturale e scientifica del mondo, a migliorare gli altri da sé. Ed invece sono bloccati a produrre (quando va bene) per altri.

A costo di andare contro leriflessioni di Graeber nell’ultimo capitolo del saggio, scritto contro le soluzioni, è necessario chiedersi, dal momento che facciamo politica, quale sia la chiave per risolvere tutto ciò? Secondo Graeber, ed io condivido pienamente, il reddito universale garantito (da qui il richiamo, ironico e meme, al reddito di cittadinanza, che è una versione caricaturale, grottesca e italica dell’UBI).

Dobbiamo in questo modo separare il lavoro dal sostentamento e, finalmente, liberare milioni di persone dal vincolo del lavoro salariato. Pensateci, la maggior parte delle persone potrebbero dedicarsi ad attività che riempiano di significato le loro vite, magari con l’obiettivo reale del progresso (culturale, scientifico…) della specie umana, liberi dai meccanismi sadomasochistici di cui abbiamo parlato (chiunque potrebbe abbandonare senza troppe conseguenze economiche il lavoro) e dall’obbligo di scaldare una sedia per 8 ore al giorno. E penso che visto il numero di lavori senza senso, il sistema non collasserebbe. Certo, forse dovremo rinunciare a qualche vizio consumistico (quelli che Lo Stato Sociale chiama “i tuoi piccoli diritti da schiavo), ma d’altronde sarebbe un bene per l’ambiente ed il nostro pianeta. E per l’umanità nel suo complesso.

Ovviamente il messaggio di Graeber è molto più ampio, molto meglio argomentato e posto di quanto possa essere mai fatto qui, per questo motivo consiglio vivamente a chi ne abbia possibilità di leggerlo, sperando che questo pezzo non vi abbia fatto desistere da ciò.

 

Redazione GD

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La Redazione è lo spazio di approfondimento e confronto pubblico dei Giovani Democratici di Milano Metropolitana!

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