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 di Elsa Piano

Il femminicidio di Giulia Cecchettin per mano di Filippo Turetta ha scosso tuttə noi, rivelando non solo la brutalità della violenza di genere ma  anche le gravi carenze della comunicazione mediatica e l’inaccettabile atteggiamento di minimizzazione che alimenta questo sistema patriarcale.

La copertura mediatica di questo tragico evento ha spesso assunto toni sensazionalistici, concentrandosi su dettagli morbosi e superficiali, piuttosto che sulla gravità del fenomeno e sul contesto sociale che lo rende possibile. I termini utilizzati, come “raptus” o “dramma passionale”, servono solo a minimizzare l’atrocità del femminicidio, banalizzando un atto di violenza estrema e sistematica come un’esplosione di emozione incontrollata.

Alcuni articoli hanno persino suggerito, implicitamente o esplicitamente, che Giulia avesse una qualche responsabilità nella sua tragica fine, mettendo in discussione le sue scelte personali.

Questo è inaccettabile e contribuisce a perpetuare la cultura della colpevolizzazione della vittima, distraendo dalle vere responsabilità dell’aggressore.

Trattare questi casi come eventi isolati impedisce di comprendere la natura sistemica della violenza di genere e la necessità di azioni concrete per affrontarla. I media devono fare di più per collegare questi eventi e promuovere una maggiore consapevolezza pubblica sul problema.

Nicola Turetta, padre di Filippo, durante una conversazione con il figlio in carcere, ha detto: “Ci sono altri duecento femminicidi. Poi avrai i permessi per uscire, per andare al lavoro, la libertà condizionale. Non sei stato te, non ti devi dare colpe perché tu non potevi controllarti” (fonte qui).

Queste parole sono disgustose, affermare che “ci sono altri duecento femminicidi” come se ciò giustificasse l’atto di suo figlio, è un tentativo spregevole di normalizzare la violenza di genere. Ogni femminicidio è una tragedia individuale, non un numero statistico da usare per ridurre la gravità di un crimine.

Altro fattore che fa ancora più rabbia e di cui siamo tuttə stanchə, la rimozione della responsabilità, dire che Filippo “non poteva controllarsi” è un’assurdità e un grave errore. La violenza è una scelta deliberata, non un destino ineluttabile. Tali affermazioni non solo insultano la memoria della vittima, ma rischiano anche di perpetuare l’idea che gli uomini non siano responsabili delle loro azioni violente.

Le scuse del padre : troppo poco, troppo tardi!

Il padre di Turetta ha successivamente cercato di scusarsi, dicendo: “Chiedo scusa per quello che ho detto a mio figlio. Gli ho detto solo tante fesserie. Non ho mai pensato che i femminicidi fossero una cosa normale. Erano frasi senza senso. Temevo che Filippo si suicidasse. C’erano stati tre suicidi a Montorio in quei giorni. Ci avevano appena riferito che anche nostro figlio era a rischio. Quegli istanti per noi erano devastanti. Non sapevamo come gestirli. Vi prego, non prendete in considerazione quelle stupide frasi. Vi supplico, siate comprensivi” (fonte qui).

Queste scuse, pur comprendendo il contesto emotivo, sono insufficienti.

È essenziale che tali atteggiamenti vengano fermamente condannati e che i genitori degli aggressori assumano la responsabilità delle loro parole e azioni, perché ne siamo tutti consapevoli che i figli sono prodotto dell’educazione familiare e che questo continuo giustificare i propri figli cresce una generazione, soprattutto di uomini,che non accetta il rifiuto, che ancora oggi tratta il corpo della donna come oggetto, possesso, i rapporti si basano semplicemente sull’utilità, la donna non è soggetto ma è l’altro in confronto all’uomo, la donna è strumento dei desideri maschili.

Si combatte questo con l’educazione, bisogna pretendere ancora di più che sia prevista una educazione sentimentale, dall’elementari fino alle superiori; solo attraverso un graduale cambiamento culturale e una buona narrazione degli eventi da parte dei media, possiamo dare vita ad una futura società giusta e esente da pregiudizi.


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