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Nota: questo articolo è composto come contraddittorio di quello pubblicato su questa medesima redazione il 29/07 (leggibile qui). Come indicato nel disclaimer posto all’inizio del sito e in conclusione a parte dei nostri articoli i GD Milano sono un’organizzazione pluralista e polifonica in cui ogni posizione viene espressa a titolo personale ed è passibile di rielaborazioni e correzioni. È dunque nello spirito della massima audi alteram partem che pubblichiamo questo contraddittorio composto di due pezzi separari e diversi, unificati solamente dalla comune opposizione.


di Jacopo Marchesi e Giovanni Soda

Pornografia del dolore e il silenzio necessario davanti ad un dramma

In questi giorni hanno fatto molto scalpore delle frasi pronunciate da Nicola Turetta durante un colloquio privato con il figlio (a cui era presente anche la madre) presso il carcere di Venezia. Le frasi risalgono a dicembre 2023, a poco tempo dall’arresto di Turetta, ma sono state pubblicate da meno di una settimana, e subito hanno scatenato un dibattito ed indignazione perché dal loro contenuto sembra che il padre sminuisca le responsabilità del figlio, la tematica del femminicidio e quasi giustifichi le sue azioni, parlando di numeri di femminicidi (“ci sono 200 femminicidi”) e di sue possibili prospettive future al di fuori della detenzione (“la laurea”).

Ma prima di entrare nel merito di quelle parole dovremmo chiederci una cosa: è normale che conosciamo queste stesse parole?

Voglio ricordalo, queste sono parole che sono state pronunciate all’interno di un colloquio privato, un delicato ed intimo momento tra una giovane persona accusata di omicidio volontario ed i suoi genitori, sgomenti e sconvolti dal fatto. Sono parole che sono state intercettate e a distanza di mesi pubblicate senza ritegno su una rivista di cronaca nera, al solo scopo di fare click, generare traffico, ed in ultima istanza profitto.

A cosa ci serve sapere il contenuto di quelle conversazioni? Fin dove si spinge il diritto di cronaca e dove dovrebbe invece prevalere il diritto alla riservatezza? Ben sappiamo che uno dei tre criteri che devono sussistere per esercitare il diritto di cronaca è quello dell’interesse pubblico alla notizia, quindi che interesse pubblico suscitano le parole di un padre disperato verso un figlio in carcere? Come ha sapientemente scritto il giornalista Luca Sofri in un articolo (visualizzabile qui) relativo ad un altro notissimo caso di cronaca nera, quello di Gambirasio, qui non si tratta più di interesse pubblico, ma di “interesse del pubblico”, quella vorace necessità di alimentare continuamente una scabrosa pornografia del dolore. Una necessità di scoprire fino al più piccolo dettaglio della vita privata dei protagonisti di queste tragiche storie senza aver minimamente rispetto della loro riservatezza e del dramma esistenziale che stanno vivendo (sia le famiglie delle vittime che quelle dei carnefici infatti sono travolte, sia a livello giudiziario che mediatico).

È quindi evidente e chiaro che quelle frasi non dovessero uscire: perché non solo noi non abbiamo nessun diritto e nessun interesse a conoscerle, ma perché esiste un diritto ed un interesse opposto di due privati, soprattutto quando uno di loro è in custodia dello stato, a poter avere uno spazio di privacy, soprattutto in situazioni di questo tipo. E quindi c’è solo da augurarsi che qualcuno si assuma la responsabilità della divulgazione delle intercettazioni (come in tutti i casi in cui elementi relativi alle indagini preliminari vengono diffusi presso il pubblico) e soprattutto che tutta la comunità giornalistica si faccia un esame di coscienza su come si rapporta i casi di cronaca nera, affinché in futuro non si scenda più nella morbosità ma si resti ancorati ad una “fredda” ed (eventualmente) necessaria informazione. D’altronde lo stesso Ordine dei Giornalisti (con un comunicato visualizzabile qui) si è scagliato contro la diffusione delle frasi.

Superato il primo punto sulla legittimità e l’opportunità di conoscere quella conversazione, arriviamo al merito. Innanzitutto dobbiamo contestualizzare il colloquio: è probabilmente il primo (o uno dei primi) colloquio tra Turetta e la sua famiglia dopo l’omicidio, la fuga e l’arresto. Da un lato abbiamo un giovane ragazzo, che si è macchiato di un crimine orrendo, con la certezza quasi matematica di dover scontare una grossa porzione della sua vita futura in carcere, e soprattutto che è in custodia dello Stato. Dall’altro abbiamo dei genitori traumatizzati da quello che è successo (non voglio nemmeno immaginare cosa debba significare sapere che il proprio figlio è un omicida), probabilmente increduli, ma che restano comunque i suoi genitori. E soprattutto sono delle persone che hanno saputo da personale del carcere che loro figlio, per tutta una serie di ragioni, potrebbe tentare il suicidio. Ed allora un genitore può fare tutto quello che è possibile per evitarlo, dovesse anche arrivare a sminuire tematiche importanti!  E noi non siamo nella posizione per giudicarlo, come non saremmo nella posizione di giudicare il fatto contrario (un abbandono del figlio) perché (fortunatamente) da una situazione del genere non siamo mai passati, e non è sicuramente qualcosa che la maggior parte di noi affronterebbe razionalmente. E quindi e di nuovo, davanti alla notizia che tuo figlio potrebbe togliersi la vita, provi come primo impulso a farlo sentire meno in colpa, per sgravarlo almeno nel momento più acuto del peso della responsabilità, e provi a dargli prospettive future di vita, per fargli vedere che qualcosa per lui ancora può esserci di buono.

E questo per due motivi: il primo, ovvero che per affrontare pienamente la sua responsabilità (penale ma anche interiore) ci sarà un processo (presumibilmente su tutti e tre i gradi di giudizio) e una lunga pena in un ambiente tra i peggiori possibili sulla faccia della terra (il carcere). E quindi non possiamo pretendere da un padre disperato la fermezza morale di riprovare il figlio e fargli in quel momento affrontare tutto il peso della sua coscienza (posto che per questo compito appunto esiste la pena – che dovrebbe essere soprattutto rieducativa – e delle figure professionali specializzate – quando ci sono… -). Il secondo motivo è che Turetta dovrà pagare la sua colpa nei limiti estremi della pena e degli effetti penali della condanna, non una cosa di più, per quanto sia grave il suo crimine: è questo il senso della pena rieducativa, per quando irrazionalmente possa farci schifo quello che è successo, possa essere ripugnante e parte di un sistema patriarcale che tende a giustificare i femminicidi (ed a cascata ogni altra sua forma di manifestazione), in ogni caso Turetta è una persona destinata a scontare una sanzione e più in là di così non si va.

Come possiamo peraltro scagliarci continuamente (e giustamente) contro i suicidi in carcere e l’idea di “buttare via la chiave” se, davanti ad una notizia del genere che correttamente tocca la nostra sensibilità in maniera estremamente profonda, ci facciamo assalire da questi istinti inquisitori e giustizialisti? Che ci piaccia o meno, come più volte affermato, Turetta in questo momento è nelle mani dello Stato, è sotto la responsabilità collettiva, e quindi a tutti noi in primis deve interessare che lui stia in vita e che riceva un trattamento dignitoso ed umano. È qui che si misura la civiltà del nostro ordinamento e della nostra società: per quanto possa aver sbagliato, per quanto magari possiamo anche odiarlo, rimane una persona e rimane un soggetto di diritti e garanzie.

Infine, sul merito “vero” di quelle frasi, e quindi non solo sulla giustificazione del perché siano state dette, ma sulla loro asserita alimentazione di una cultura giustificatrice dei femminicidi. Concordo: quelle frasi, se prese fuori contesto, sembrano giustificare un sistema oppressivo e patriarcale. È vero: non condivido minimamente ciò che ha detto Nicola Turetta al figlio. Ma dev’essere il padre disperato di una persona sotto arresto a farci una lezione di femminismo? Sono queste frasi che ci hanno fatto scoprire che viviamo in una società patriarcale e sostanzialmente giustificazionista della violenza sulle donne?  Per quanto mi riguarda, assolutamente no: non possiamo pretendere alcuna posizione morale da parte di persone coinvolte in vicende del genere, per di più quando queste conversazioni emergono da conversazioni private.

Per concludere da tutta questa storia impariamo come il pubblico ed i media non abbiano il minimo rispetto delle vicende drammatiche che investono sia le famiglie dei carnefici che quelle delle vittime, che anche noi che vogliamo raccontarci bene quanto siamo garantisti rischiamo in verità di essere soggetti alla ricerca morbosa dei più minimi dettagli di queste tragiche storie e, per (semi)citare un certo scritto, ad un inconscio giustizialista che ci porta a voler trovare il mostro per nascondere le nostre responsabilità collettive. Quindi una volta ancora davanti ai drammi facciamoci un bell’esame di coscienza.


Più kantiani di Kant!

Il marasma discorsivo proprio della nostra sfera pubblica genera senza alcun dubbio una grandiosa confusione. Al di là delle dovute obiezioni circa la divulgazione di conversazioni private, su cui è verosimile attendersi una generica condanna, il discorso può proseguire interrogando la maniera in cui siamo tenuti a giudicare quanto pronunciato da Nicola Turetta.

Qualunque persona attiva e che abbia seguita la poderosa ondata di indignazione emersa dopo l’omicidio di Giulia Cecchettin avrà certamente intercettato il gran numero di esortazioni, giustamente provenienti da più parti della società civile, a trasformare questo caso in una sorta di contraccolpo sulla coscienza collettiva nella lotta al femminicidio e agli effetti della cultura patriarcale. Ed è in questo che molti slogan sono emersi e si sono coagulati nel discorso pubblico, uno su tutti “educa tuo figlio”.

Assodata la necessità di intraprendere una battaglia sociale contro la cultura patriarcale che, precisamente in quanto “cultura” e dunque fin dall’etimo connessa alla “coltivazione” (cultus), si costituisce come l’aria che si respira e l’acqua che si beve; ciò che è necessario compiere è una battaglia culturale, ovvero che agisca ai molteplici livelli dello sviluppo di un individuo. Ed è in questo senso che si afferma che Filippo Turetta non è un mostro ma il prodotto integrale e coerente del sistema culturale che l’ha posto nella situazione di compiere determinati gesti. Circa questo punto, non vi è nessun ragione per discordere da chi non la pensa come noi. L’unico reale punto di disaccordo sta nella domanda: Nicola Turetta deve tentare di educare suo figlio ventitreenne con pressapoco una trentina di anni di galera davanti e, come segnalato dagli psicologi della prigione, a rischio suicidio?

Ebbene, è precisamente rispondendo a questa domanda che emergono i kantiani più kantiani di Kant. Questi sono coloro che rispondono affermativamente alla questione suddetta e proclamano la necessità di un intervento drastico e radicale su Filippo Turetta affinchè espella ogni rimasuglio di patriarcato dalla sua psiche. Ora, potrebbe sembrare inopportuno richiamare quel vecchio filosofo di Königsberg che di questa società non poteva sapere niente e per cui difficilmente il femminicidio costituiva un problema sociale. Eppure, una sorta di retrogusto che ricorda la Critica della ragion pratica si respira nell’articolo cui ci opponiamo, si prenda – ad esempio – il passaggio in cui l’autrice afferma

Queste scuse [di Nicola Turetta], pur comprendendo il contesto emotivo, sono insufficienti.

È essenziale che tali atteggiamenti vengano fermamente condannati e che i genitori degli aggressori assumano la responsabilità delle loro parole e azioni, perché ne siamo tutti consapevoli che i figli sono prodotto dell’educazione familiare e che questo continuo giustificare i propri figli cresce una generazione, soprattutto di uomini,che non accetta il rifiuto, che ancora oggi tratta il corpo della donna come oggetto, possesso, i rapporti si basano semplicemente sull’utilità, la donna non è soggetto ma è l’altro in confronto all’uomo, la donna è strumento dei desideri maschili.

Ora, per quanto la parte conclusiva della citazione abbia, se assunta in sé, una validità indiscutibile, è la prima parte a destare interesse. Infatti, cosa significa affermare che le scuse di Turetta padre sono insufficienti? Significa tracciare una linea del dovere cui ogni persona deve sottostare e che, se non raggiunta, rende un individuo difettoso ed imperfetto. È precisamente l’enfasi sulla dimensione del dovere a richiamare Kant, la cui intera etica viene costituita intorno al termine tedesco “Sollen” (tradotto come “dovere morale”) e all’esistenza di un imperativo da seguire in maniera assoluta e incondizionata.

Eppure, alla sua etica estremamente rigida Kant riconosceva la dimensione dell’idealità, vale a dire la indicava come modello perfetto per la determinazione dei rapporti umani. È precisamente la coscienza della distanza fra come il mondo è e come esso dovrebbe essere a costituire motivo di interesse. Il filosofo, ricolmo di empatia e di amore per l’umanità, non esitava ad ammettere che l’idealità dell’imperativo morale derivava dalla fallibilità propria dell’uomo, al punto che nel 1784 afferma «di un legno tanto storto come quello di cui è fatto l’uomo, non si può costruire nulla di completamente dritto».

Abbandonando questo vagheggiamento metafisico per ritornare alla matrice del nostro discorso, possiamo comprendere perchè l’assalto contro Nicola Turetta si costituisca come precisamente “più kantiano di Kant”. Infatti, ciò che si richiede a quest’uomo il cui figlio (macchiatosi di un crimine orrendo e giustamente mortificato dall’opinione pubblica) è sull’orlo del suicidio è di favorire la dimensione dell’emancipazione dell’umanità intera. Indubbiamente, non sminuire il quantitativo di femminicidi commessi in Italia e contribuire al dilaniamento morale a cui (ripetiamo ancora una volta, giustamente) Filippo è sottoposto renderebbe Nicola Turetta un campione di moralità e di abnegazione di sè, ma possiamo realisticamente pretendere, o anche solo aspettarci, questo? Io non credo.

Infatti, quando affermiamo che la cultura patriarcale deve essere estirpata non intendiamo con ciò pretendere una sorta di situazione in cui ogni individuo recita formule moralmente approvate, una situazione che apparterrebbe di più al mondo della Santa Inquisizione che a quella di una moderna democrazia liberale. Piuttosto, quando vogliamo impegnarci radicalmente per l’eliminazione di un retaggio storico plurisecolare dobbiamo operare sul livello istituzionale, a partire dallo stadio scolastico (e in ciò concordo in pieno con l’articolo cui ci opponiamo) e dalla dimensione culturale. Il che vale a dire, riducendo il discorso all’insegnamento essenziale, che in politica l’azione e la speranza deve derivare più dei gruppi che non degli individui.

 

Redazione GD

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La Redazione è lo spazio di approfondimento e confronto pubblico dei Giovani Democratici di Milano Metropolitana!

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