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Da qualche anno, destra e sinistra in tutto il mondo hanno ricominciato a dibattere animosamente dei monumenti. A colpi di cancel culture gender ideology, il confronto politico si gioca, al giorno d’oggi, anche sulla cultura, la memoria e i ricordi sociali. Statue?! è la rubrica dei GD Milano che intende affrontare la questione, analizzando casi da tutto il mondo per gettare luce su questa dinamica contemporanea!


a cura di Giuseppe Pepe

GD: Il suo percorso politico è stato sempre legato alla città di Brescia. Non le chiedo quale città preferisce tra la sua e Milano, ma secondo lei quale è la differenza più grande tra le due città?

EDB: Sono due città che hanno storie diverse. Brescia ha sempre cercato un processo autonomo nel suo percorso dal momento che ha acquisito una propria identità. Brescia è stata protagonista delle due leghe contro l’imperatore. Dopodichè nel periodo rinascimentale ha deciso di stare nell’orbita della Repubblica di Venezia. E’ una città che ha sempre guardato verso l’oriente della Lombardia rispetto all’occidente. Possiamo dire che il territorio bresciano ha sempre rappresentato l’anello di congiunzione tra l’est dell’Italia settentrionale e l’ovest, con tutto quello che esso comporta.

Questo per la città rappresenta un elemento identitario, visibile anche nei suoi monumenti e lo si vede anche nel rapporto di rispetto e di stima nei confronti della città di Milano, ma anche dalla forte autonomia che conserva. Forse Brescia è la città lombarda per dimensioni e caratteristiche che ha voluto cercare un suo equilibrio di capitale della lombardia orientale, senza essere schiacciata quantitativamente e qualitativamente dalla forza centripeta di Milano. Il capoluogo meneghino è infatti una città estremamente attrattiva, la sua forza va oltre i confini amministrativi e il milione e trecentomila persone che vi abitano.

Brescia deve confrontarsi con questo, senza negare il ruolo di Milano come centro europeo e senza serbare un rapporto conflittuale, che al contrario deve essere estremamente collaborativo, garantendo però la distinzione tra le due città.

GD: Lei si è laureato in Giurisprudenza, ma fin dal suo primo mandato come sindaco ha conseguito ottimi risultati sul piano urbanistico: un nuovo PGT che azzera il consumo di suolo, la nascita del Parco delle Cave, dalla riapertura della Pinacoteca Tosio Martinengo, la ristrutturazione e riapertura del PalaLeonessa e l’avvio delle bonifiche dei parchi pubblici a sud della città. Qual è il rapporto per lei tra politica e la città?

EDB: Un rapporto molto stretto perché la politica non è solo una summa di ideali che elenchi o non è solo un sistema di valori. Questi sono il fondamento della declinazione pratica dell’ attività di un politico. Un’ amministratore o un quadro di partito non è solo un teorico ma, come ho già detto altre volte, è un idealista concreto. Gli ideali contano se rientrano nella vita quotidiana delle persone. Io posso anche immaginare la città ideale ma se non la strutturo con misure efficaci questa rischia di essere del tutto ininfluente nei confronti della cittadinanza.

Limitare la cementificazione, riqualificare il patrimonio immobiliare esistente, come un edificio storico o un’ex caserma, aggiungere un servizio pubblico sono azioni puntuali vicinissime alla popolazione ma che si rifanno a una visione più ampia.  La politica ha bisogno di una visione ideale, che non trasformi le risposte quotidiane date alla cittadinanza in risposte frammentarie ma che riesca a ricondurle sempre a un disegno più ampio. Ciò permette a chiunque di capire cosa stai facendo, perché lo stai facendo e i vantaggi che porta alla comunità, al di la del grado di istruzione e senza essere dei tecnici. 

La politica è quella cosa in grado di portare nella grande storia dei territori quei valori ideali che ciascuno di noi nella sua formazione individuale e collettiva ha formato. Noi veniamo da quella grande tradizione politica che ha unito i principi ideali liberali e democratici al grande afflato del welfare comunitario e di un’economia sociale di mercato che ne corregga gli squilibri. Dobbiamo assicurare che questa visione si faccia ogni giorno proposta politica concreta.

GD: Lei ritiene che oggi, rispetto che in passato, la capacità della politica di incidere sulla struttura della città sia diminuita?

EDB: È evidente che la politica fa i conti con le poche risorse. Il condizionamento delle scelte urbanistiche è soggetto a grandi finanziatori che spostano risorse di natura urbana. Il tema è non rimanere succubi. Bisogna piegare, nel tuo disegno, le potenziali risorse e disponibilità finanziarie. Il pericolo è che l’urbanistica la faccia il privato e non il piano di regolazione pubblica.

Poi è chiaro che, se non si vive su una dimensione astratta, tu devi fare in modo che il libero mercato sia orientato verso obiettivi che tu, politico, prefiggi e mai viceversa. Per cui se i tuoi obiettivi sono una residenzialità di un certo tipo, per esempio, farai in modo che la regolazione urbanistica, attraverso destinazioni, incentivi, peso degli oneri sia figlia del tuo disegno. Bisogna spingere il mercato finanziario la dove non vorrebbe andarci. Il privato difficilmente vuole bonificare dei terreni, rigenerare patrimoni immobiliari già costruiti e inserirsi in contesti svantaggiati, o ancora, sarà difficile che il privato sia portato a finanziare strutture per dei servizi pubblici, ma la politica deve fare proprio questo.

Soprattutto sull’ultima, un mantra che dicevo sempre quando ero sindaco è che non c’è rigenerazione senza forti funzioni pubbliche quali scuole, teatri e ospedali. Un quartiere senza servizi pubblici diventa un dormitorio e diventa anonimo, mai una comunità. La politica permette di assicurare che l’urbs sia civitas, che una comunità si riconosca in quanto tale e quindi avvii un cammino popolare per il benessere comune.

GD: Lei ha usato il termine cammino popolare, che dà una forte idea di collettività, della città che è il prodotto del singolo ma che si costruisce in quanto comunità. Quest’ultima si riconosce nei propri simboli  che possono anche essere monumenti. Per lei qual è il monumento più significativo per la città di Brescia e perchè?

EDB: Secondo me il simbolo della città è il Palazzo della Loggia che non a caso è anche la sede del comune. Ma non perché è solo la sede del comune. Quell’edificio rappresenta l’ambizione di una città di fare una cosa: un palazzo rinascimentale con una funzione pubblica nella quale prendere collettivamente le decisioni. Il palazzo della Loggia nasce proprio con questa funzione, come palazzo di rappresentanza della città, senza magari essere stato prima riconducibile a dei notabili o a dei signori locali. 

Aggiungerei per la sua storicità il Capitolium che è la storia dell’urbanizzazione romana che ha cambiato il volto della città. Brescia era prima il centro della Gallia Cisalpina e con i romani cambia sia culturalmente sia plasticamente.

GD: Invece quale quello che proprio non avrebbe mai voluto incontrare nella suo percorso da Amministratore? Ci racconti il suo scontro e le motivazioni?

EDB: Direi nessuno, perché le pubbliche amministrazioni dal Secondo Dopoguerra non hanno mai inferto delle ferite così pesanti sul territorio. Noi non abbiamo avuto nella storia recentissima delle ferite. Poi è evidentemente che precedentemente ci sono state delle operazioni urbanistiche che hanno avuto un certo grado di violenza rispetto alla forma della città e ai suoi cittadini.

Gli interventi del ventennio che hanno eliminato un’intera area, il quartiere delle pescherie, con tutta la socialità e la comunità che qui trovava dimora, hanno avuto delle ripercussioni anche sulla città che da quel momento è stata caratterizzata dalle baraccopoli costruite nei pressi del fiume proprio da tutte quelle persone sfollate, respinte non da un cataclisma ma da delle scelte discutibili. Quella è stata una violenza molto forte, figlia di un’idea palingenetica e messianica del fascismo.

GD: Legato all’intervento di cui ha parlato, nell’ex quartiere delle pescherie, poi piazza della Vittoria, si trovava una statua, un simbolo di quell’intervento urbanistico fatto durante il ventennio: “il Bigio”. Quando era sindaco di Brescia c’è stato un grande dibattito sulla proposta della destra di ricollocare la statua. Lei cosa ne pensa? 

EDB: Faccio una premessa. La statua è stata ribattezzata dai bresciani come “il Bigio” in modo canzonatorio perchè nuda. Con il termine bigio si rimandava all’organo sessuale maschile.

GD: Le dico la verità pensavo personalmente si chiamasse così per il colore  chiaro pallido, quindi bigio.

EDB: Questa tesi c’è ma in realtà i bresciani si riferivano alla sua nudità, tanto che poi fu richiesto un intervento per porre rimedio. Detto questo la statua è un’opera non pregevolissima dello scultore Arturo Dazzi. Fu collocata nel 1932 in occasione dell’inaugurazione di piazza della Vittoria. Quella collocazione fu figlia di un dono di Mussolini alla città. Nella logica urbanistica piacentiniana la piazza pensata non prevedeva questo elemento. La collocazione si rese necessaria proprio perchè dono del dittatore

Inoltre la statua ha un nome ben preciso: L’era fascista. Il titolo rende evidente il pensiero che il regime voleva insinuare tra la popolazione del fascismo come rivoluzione addirittura antropologica. L’opera non venne mai apprezzata dalla popolazione proprio per la diretta identificazione con il regime e si dice che il vescovo non faceva passare i religiosi per la piazza per la nudità della statua. Nella realtà questa storia semplifica l’antipatia per il fascismo che caratterizzava anche la curia bresciana.

Non a caso nel 1945 il monumento venne danneggiato con una bomba a mano che ne fece perdere una gamba e un pezzo del braccio e nello stesso anno la prima giunta democraticamente eletta decise la sua rimozione con una motivazione che si rifaceva al simbolo di un regime che era inviso al popolo. La statua fu rimossa con l’aiuto delle forze armate americane e collocata in un edificio di proprietà comunale. Dal 1945 il monumento ha dormito ininterrottamente fino al 2005 quando la giunta di centrodestra, ipotizzando la riqualificazione di piazza della Vittoria, aveva previsto tra le opere complementari della metropolitana leggera la ricollocazione de “L’era fascista”, facendo secondo me un errore clamoroso, sottodimensionando la ricollocazione di una statua. Perché la ricollocazione del Bigio o  dell’era fascista è un unicum. Un conto è tutelare, valorizzare e definire semanticamente un monumento esistente, un’altro conto è che nessuno ha fatto i conti con la ricollocazione di una statua che ha una sua simbologia. È come mettere una croce uncinata a Berlino. Se si prende una svastica che è stata fino a quel momento conservata in un museo e la riponi in una piazza ci sarebbe un problema non indifferente, perché ciò comporta non considerare la storia che l’ha rimossa. Come è stata messa dalla storia così è stata tolta. 

Non è banale tutto ciò, considerando che a nessuna giunta democristiana venne in mente questo atto. Brescia è stata anche la città della Repubblica Sociale Italiana, è bene che non ce lo dimentichiamo

Come si affronta questo tema? Semplificando e dicendo che visto che c’era un tempo la rimettiamo? o che la rimettiamo nuova? Io ho contestato anche le caratteristiche dell suo inserimento perché il monumento doveva essere riposizionato con i segni della storia, con la frattura della gamba, con il danno del braccio. Invece è stato fatto un intervento in maniera rimettendola completamente a nuovo, come se nessun bresciano l’avesse danneggiata in passato. Il dubbio viene quindi anche da un punto di vista tecnico teorico sulla bontà dell’intervento perché irrispettoso della storia. Bisogna avere rispetto sia della storia dal 1933 al 1945, per quanto il giudizio non possa che essere severissimo, ma dobbiamo rispettare la storia dal 1945 a dopo, dove per volontà collettiva la statua non venne più riposizionata. Il monumento stesso rimase lì per 12 anni ed è stata assente per decenni per cui la geografia di quella piazza non conosce quella statua, sia nella concezione di chi ha progettato l’intervento urbanistico sia per chi ha vissuto la città nei decenni successivi, io stesso non l’ho mai vista in quella posizione e ho 59 anni. Se si fosse aperto un confronto su come ricollocare la statua prendendo in considerazione tutti gli aspetti riportati, senza alcuna riabilitazione storico-politica più o meno sottesa, allora sarebbe stato un percorso serio. Ma questi aspetti non sono stati presi in considerazione.

GD: Anthony Gormley, un noto scultore, proponeva di metterlo sdraiato. Questa proposta ci ha portato ad avanzare una nuova visione per i monumenti che le riporto.L’idea è quella di garantire lo stato di fatto di quelli che sono oggetto di dibattito e di pensare a un’addizione reversibile di elementi che possano attualizzare il suo significato o, nel caso specifico della statua “L’era fascista”, cambiarne la posizione per assicurarne una nuova lettura attualizzata. La proposta avanzata rappresenta sicuramente quella più invasiva per un’opera di questo tipo, nonostante non ci siano aggiunte di nessun tipo. L’idea appare molto semplice, ovvero riproporre la statua del Bigio ma orizzontalmente, caduta, come se fosse appena stata abbattuta.

GD: Lei cosa ne pensa? Secondo lei è giusto aggiornare i monumenti? Dare nuovo significato?

EDB: Alcune suggestioni sulla ricollocazione del Bigio sono interessanti. La statua sdraiata la ha anche richiamata l’ex sindaco Cesare Trebeschi, una figura importantissima della nostra città che l’ha amministrata dal ‘75 all’’85, figlio di un’altra grande personalità bresciana morta in campo di concentramento. Quindi una figura che aveva l’autorevolezza per poter parlare in maniera seria di questi argomenti. Oltretutto piazza della Vittoria fu il luogo dove vissero e vennero deportati i fratelli Della Volta di cui uno, Alberto, fu compagno di prigionia di Primo Levi che ne parla nei suoi scritti. Capiamo quindi come una ricollocazione si interseca a fatti e personaggi che affondano profondamente nella storia di Brescia. Un semplice riposizionamente, senza senso critico, senza una valutazione profonda risulterebbe sicuramente superficiale. Inoltre la suggestione del Bigio sdraiato,che è pur interessante, non è mai stato oggetto di un confronto con la soprintendenza. Anzi quest’ultima si è inserita in una questione filologicamente e apparentemente coerente, ovvero di inserire la statua “L’era Fascista” in occasione della riqualificazione della piazza poichè il monumento ne faceva parte originariamente.

Capite bene però, dopo tutto quello che è stato detto, che questa operazione sarebbe risultata sorda di tutta la storia successiva al fascismo e inoltre incoerente con tutto quello che è il processo di trasformazione della piazza, della città e dei bresciani stessi. Quella statua non è un elemento neutro, ma anche se lo fosse il riposizionamento di un monumento in un contesto dove era stato posto in origine deve essere sempre oggetto di attente valutazioni, di studio e di analisi. E in ogni caso il risultato conclusivo di questo percorso non può essere di porre una statua “così com’era” senza nessuna traccia del tempo e delle ragioni  per cui è stata spostata. Sarebbe una negazione del tempo e della storia, un enorme falso storico. Fare un’operazione di questo genere comporta non sapere il significato di un monumento per una comunità.

La statua del Dazzi sdraiata, d’altra parte, è una scelta interessante. La valutammo anche noi quando si pensò alla musealizzazione dell’opera. Purtroppo però con la soprintendenza non si riuscì mai a trovare un luogo dove collocare la statua perchè tutti i luoghi vennero considerati incoerenti. Avevamo pensato anche di mettere la statua in un’area di rigenerazione urbana al fine di decontestualizzarla, restituendone un nuovo significato. Un altro scultore americano, sollecitato da Massimo Minini, noto gallerista bresciano, propose un’altra soluzione: falla emergere dal suolo, come se la storia l’avesse fatta in parte affondare. Ci sono state diverse idee quindi molto interessanti, tuttavia il dibattito che si fece allora era incentrato su altro perchè la chiara intenzione era un riposizionamento scevro da qualsiasi considerazione più profonda, escludendo la musealizzazione, proponendo un intervento quasi in maniera. 

Dare nuovi significati ai monumenti del passato, permettendone nuove letture, garantendo una nuova comprensione sfruttando i linguaggi propri della contemporaneità artistica è sicuramente qualcosa di interessante che si dovrebbe approfondire. Guardo con un certo interesse all’esperienze francesi che sono molto coraggiose nel combinare modernità a stratificazione monumentale. Vi è poi un tema di linguaggio e di difficoltà a garantire la lettura contemporanea a delle opere del passato. Non sono per nulla contrario a queste ipotesi purchè si stia attenti a tre aspetti: la motivazione dietro a integrazioni di questo tipo, la comprensibilità della narrazione che si vuole costruire intorno a queste opere e il contesto dove si portano avanti queste operazioni.

GD: Ha parlato di molte proposte simili alla nostra. Secondo lei quale sarebbe l’accoglienza a quella che le abbiamo presentato da parte della società italiana?

EDB: Queste operazioni si possono fare se sono adeguatamente preparate. La preparazione dipende da un dibattito pubblico che abbia la caratteristica del rigore, dell’alta professionalità e della chiarezza nel spiegare che cosa si vuole fare e perchè.

In Italia nessuno si interroga dei propri monumenti perchè siamo un Paese terribilmente impreparato. Non abbiamo fatto i conti sulla nostra storia, quando si tenta di farli si creano le tifoserie e lo stesso avverrebbe parlando delle vestigia del nostro passato, soprattutto quelle come quella della statua “L’era Fascista” di Dazzi. È difficile fare un discorso serio.

Io non so se noi siamo pronti a questa cosa. Sono pochi i casi che in Italia hanno costituito un laboratorio da questo punto di vista. Forse perchè le ferite della storia del nostro ‘900 sono ancora aperte, ancora troppo vicine. Non lo so. Io vedo purtroppo ancora un Paese immaturo. Lo dico con grande sincerità, serve una grande onestà intellettuale e questa si basa sul fatto che il patto repubblicano che ha costruito la nostra Repubblica non sia incrinato. Soprattutto sul fascismo, come nel caso che mi avete presentato, non ci sarebbero problemi se l’Italia non presentasse anche una grande inadeguatezza tecnica sia degli esperti del settore sia della nostra classe dirigente. Difatti non ci sono i luoghi dove riflettere e dibattere di questi argomenti delicati. In tutti i miei anni di impegno politico e quando ero sindaco di Brescia non ne ho trovati e mi sarebbero stati utili.

GD: Le viene in mente un monumento che vorrebbe attualizzare?

EDB: Non credo di essere in grado di dare un esempio. Serve come dicevo una professionalità tecnica e un dibattito che ancora non è avvenuto. Il tema di come affrontare la monumentalità e la memoria deve essere oggetto di studio. Aspetto di darti la risposta quando tutto ciò avverrà, spero che questo Paese faccia in tempo.

 

 

Redazione GD

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La Redazione è lo spazio di approfondimento e confronto pubblico dei Giovani Democratici di Milano Metropolitana!

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