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di Francesco Petracca

A metà strada tra Francia e Germania, tra filosofia strutturalista e pensiero dialettico, si colloca l’inizio del lunghissimo lavoro intellettuale di Fredric Jameson, continuamente segnato da queste due tradizioni, spesso in contrasto tra loro, che egli riuscirà a far stare insieme. Queste due correnti convivono già nella sua tesi di dottorato, che affronta l’opera di Sartre (uno scrittore francese) sorvegliata dalla precisione del suo relatore, Auerbach (un filologo tedesco). Jameson, scomparso all’età di novant’anni questa domenica, ha attraversato la metà più importante del Novecento, l’ha vista tutta, dallo scoppio della Seconda guerra mondiale al cambio di millennio, tentando di guardare, scoprire e descrivere ciò che scorreva lungo il fiume torbido della Storia. Questa osservazione, questo faticoso tentativo di conoscenza, Jameson lo ha portati avanti seguendo sempre il proprio campo di lavoro: il marxismo culturale (una branca di studio accademica e teoretica, non la teoria del complotto della destra odierna). A lui si deve la teorizzazione che interpreta qualsiasi lavoro narrativo (e non solamente letterario) come una magical narrative, una narrazione magica. Ha cercato di dimostrare come i prodotti culturali, nelle loro diverse manifestazioni, funzionino come storie che tentano, attraverso la distanza dell’immaginazione, di risolvere un problema politico e sociale che la realtà non riesce a risolvere.

Ha spiegato quindi come l’arte e la cultura abbiano al proprio interno, nascosto, un inconscio politico, una velata battaglia di emancipazione che si realizza attraverso l’espressione; ha poi argomentato come l’opera narrativa, e in questo senso l’umanità tutta, manifesti una coesistenza attiva di diversi modi di produzione, rifiutando il marxismo classico, dimostrando che l’arte non contiene solamente i segni della presente struttura (ad esempio: il capitalismo industriale o digitale), ma anche le forme sopravvissute e nascoste delle più antiche società del catalogo di Marx, e addirittura di quelle società che ancora non ci sono, quelle dell’egualitarismo socialista o comunista. Ha cercato di spiegare, cioè, che l’arte, in alcuni punti, suggerisce l’immagine di un modello nuovo e diverso di società o, al contrario, ricorda quali fossero i meccanismi di funzionamento delle vecchie. Questo è stato possibile perché fin dall’inizio Jameson ha creduto che

«Questi problemi possono recuperare per noi la loro urgenza originaria solo se sono raccontati nuovamente nell’unità di una singola grande storia collettiva; solo se, per quanto simbolica e mascherata sia la forma, si ritiene che essi condividano un singolo tema fondamentale – per il marxismo, la lotta collettiva per conquistare il regno delle Libertà dal regno delle Necessità; […] Rilevando le tracce di que[sta] narrazione ininterrotta, riportando alla superficie del testo la realtà repressa e sotterrata di questa storia fondamentale, la dottrina di un inconscio politico trova la sua funzione e la sua necessità».

Jameson concepiva allora l’arte come un movimento collettivo e imponente che tenta, con i suoi mezzi, di liberare l’umanità e riteneva possibile che essa riesca a dare voce alla subalternità; percepiva la storia in senso profondamente marxista, come una reale opposizione tra oppressi e oppressori, a tutti i livelli relazionali, non solo alla base economica. Ugualmente importante è stato il suo lavoro sulla logica culturale del postmodernismo: una critica perfettamente artistica e politica allo stesso tempo. Gli piaceva credere che filosofia e letteratura non fossero distinte, perché entrambe produzioni di linguaggio; e spiegava come le lingue funzionino come le lenti di prova che s’indossano dall’ottico: ognuna con un campo messo a fuoco e un altro lasciato sullo sfondo e sfocato. Un inventario di strumenti per osservare, di volta in volta, tutti gli argomenti che compongono la realtà. Per riuscire poi a modificarla.

Redazione GD

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