Achille Cremonesi è stato un partigiano della 52ª Brigata Garibaldi. Achille ci ha lasciati il 7 gennaio all’età di 96 anni. Per commemorare la sua scomparsa e preservare il ricordo della sua esperienza nella Resistenza la Redazione dei GD Milano pubblica la trascrizione dell’intervista che, in occasione del 25 aprile 2023, il circolo di Municipio 4 ha registrato e pubblicato (visualizzabile qui).
a cura di Elisa Parcerisas, Elisa Di Chiara, Alessandro Finzi, Samuele Franciolini
GD: Innanzitutto, una breve presentazione
AC: Mi presento, sono Achille Cremonesi, ho 94 anni e mezzo [aprile 2023], vado per i 95, se ce la faccio [ride]…se no ce la faranno quelli dopo. Comunque, sono nato a Rogoredo e oggi abito in un palazzo che è vicino a quello in cui sono nato. Sono entrato nella Resistenza nel ‘43. Abbiamo costruito questo gruppetto in cui il fratello di Scaroni era un po’ la mente. Da questo abbiamo incominciato a fare i disarmi, cosa sono i disarmi? Il disarmo sono quelle cose in cui tu uscivi alla sera, trovavi qualche fascista in giro da solo e allora andavi là con la rivoltella, gli puntavi l’arma e gli portavi via la pistola o il mitra a seconda di quello che aveva.
Dopo di questo abbiamo incominciato a andare in giro a fare e con il Botta, il Galletti e Santini, questi sono tre nomi che mi ricordo benissimo; andavamo in giro nelle farmacie, il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) ci dava i buoni e noi andavamo nelle farmacie e ci facevamo dare i medicinali. Poi questi medicinali li mandavamo in montagna per curare quelli che venivano feriti o erano ammalati ecc.
E poi via via siamo andati fin quando il 24 novembre del 1944 abbiamo avuto uno scontro a fuoco in piazza medaglie d’Oro – a Porta Romana – con la GNR, la Guardia Nazionale Repubblicana, con l’Aeronautica fascista. Lì è saltato per aria il problema del gruppo. Prima, noi avevamo contatti fra noi del gruppo ma non che si sapeva chi eravamo, avevamo i nomi di battaglia. Ad esempio, il mio era “Nasùn” [Nasone], era questa la tecnica che si adoperava. Quando abbiamo fatto questo scontro uno è stato preso e ha parlato ed ha fatto i nomi anche degli altri. Tuttavia, avevamo un medico [infiltrato] (e non faccio i nomi) che ci ha informati che ci stavano cercando.
Io, all’epoca, lavoravo alla Caproni in via Mecenate, dove c’era la Caproni. I miei i miei nonni erano a Monluè. E allora sono scappato lì. Poi tramite il nostro giro avevamo un riferimento in via Melzo e siamo finiti lì, a casa del nostro contatto. Un bel giorno ci hanno detto che saremmo dovuti partire il giorno dopo. La mattina seguente abbiamo preso il treno e siamo andati a Como, una volta lì abbiamo preso il battello con una guida che ci ha portati in montagna. Lì in montagna abbiamo fatto il nostro servizio [nella 52’esima Brigata Garibaldi], con i disarmi e tutto il resto…
GD: Sulla montagna torniamo dopo. Prima volevamo chiederti qual è la cosa che più di tutte ti ha spinto a diventare un partigiano
AC: Eravamo un gruppo di ragazzi provenienti da famiglie in cui si era un contro i fascisti, cioè non avevamo come punto di riferimento la mentalità del fascio. Allora la c’era la Brigata nera, la Muti. La Muti era un un gruppo di fascisti feroci che ti prendevano e ammazzavano. Erano le famiglie da cui si proveniva che ti inducevano a fare questo passaggio cioè il passaggio che ti spingeva a entrare dentro nei partigiani, questo era quello che ci ha indotto a creare questo gruppo. Alla sera, con i mezzi che avevamo [agivamo]. [Essere partigiano] significava vivere tutta una condizione di carattere diverso. E noi avevamo impostato questo tipo di attività per avere una vita diversa da parte di tutti. Un modo diverso di parlare, un modo diverso di andare a scuola, la possibilità di avere una vita decente. Questo era l’obiettivo che noi ci eravamo posti.
GD: Torniamo sull’esperienza della tua lotta partigiana, qual è stato un episodio centrale che ricordi particolarmente?
AC: Quando mi hanno preso. Il 24 dicembre sono venuti sù [in montagna] quelli della Muti e ci hanno catturato. Il comandante di battaglione aveva indicato a questi dove eravamo e attraverso un giro ci hanno ci hanno preso alle spalle. Ci hanno portati a Como Borghi…un po’ a Como borghi e un po’ da un’altra parte. Lì ci hanno fatto i processi, che sono durati due giorni. E poi c’è stata la fucilazione di cinque compagni, di cui il più giovane aveva 21 anni. In piazza Mercanti, sulla Lapide dei caduti c’è il suo nome: Busi Giovanni. Ci hanno tenuto in prigionia] e ci hanno liberati il 24 aprile.
GD: Parlaci di quel giorno lì, del 25 aprile, cosa ti ricordi? Come lo hai vissuto?
AC: La mattina ci liberarono. Ero spaesato perchè mi trovavo ad Alessandria, non a Milano. Dopo essere stati catturati siamo stati prima al carcere di Como, poi a Milano a San Vittore e infine ad Alessandria; tre carceri in totale. Uscito una signora mi vide che ero spaesato e mi chiede “lei è fuggito dal carcere?”, io avevo paura a dirle di sì perchè temevo fosse una fascista che mi avrebbe riportato indietro. Invece, [viveva] a casa del vicesegretario del Partito Comunista, Luigi Longo era [il vicesegretario], ci hanno portati lì e mi hanno dato da mangiare […]. Poi c’era una ragazza, una bella ragazza, la quale mi ha accompagnato fuori. Alessandria è circondata da fiumi e tu per passare dovevi attraversare i ponti, ancora presidiati dai tedeschi e dai fascisti.
Facendo finta di niente, io e questa ragazza, siamo riusciti a passare e abbiamo incontrato un gruppo di partigiani. Ci hanno liberato e siamo andati coi partigiani. Quando sono stato ad Alessandria, siamo stati incorporati nella guardia della military police americana. Facevamo il trasporto di ragazzi [prigionieri] della guardia repubblicana di Vigevano, c’erano due ragazzi di Vigevano che io sono riuscito a fare scappare a casa. Erano ragazzi che non erano andati con lo spirito di uccidere, erano andati perché non potevano fare altrimenti e perché era difficile [scegliere] allora, non era facile.
Il 25 Aprile poi siamo usciti [da Alessandria] e siamo tornati a casa. In seguito, abbiamo intrapreso la vita politica e sindacale. Io per un periodo di tempo ho mollato, perché ero un po’ in disaccordo con alcune scelte. Dopo, poi, sono diventato “l’alter ego” del consiglio di fabbrica della Redaelli.
GD: Se ti ricordi com’era prima della lotta partigiana cioè, prima che tu entrassi [nella resistenza]. Durante il fascismo e poi all’inizio della guerra come era la vita qua a Rogoredo?
AC: Allora io avevo 14-15 anni [quando sono entrato nella resistenza]. Quando abbiamo incominciato dal poco con questi [col gruppo] perché con questi eravamo in grado di gestire un fatto del genere. Tieni conto che qua [a Rogoredo] è stato ucciso un tedesco, quando ammazzavano un tedesco [la Wehrmacht] faceva la decimazione: un tedesco morto, dieci [italiani] andavano ammazzati. Tutto questo avveniva proprio nei quartieri dove c’era, per così dire il proletariato, dove c’era il proletariato c’era anche la formazione di questi gruppi.