fbpx

C’era una volta in Italia

Una delle parole più buffe del dizionario italiano è “kermesse”. Non solo perché non presenta i tratti classici distintivi della lingua nazionale (quella k e la pronuncia non trasparente “chérmèss” rigettano la veterolingua) ma anche perché il suo utilizzo è ristretto a un numero limitatissimo di casi.

Per quanto, negli ultimi anni, nei media sia comparsa anche per indicare la festa di Fratelli d’Italia ad Atreju; per lunghi decenni di storia italiana “la Kermesse” maiuscola e capitale è stata il Festival di Sanremo.

In circolazione dal 1951 e nato come insieme di serate musicali organizzate con lo scopo di catalizzare la presenza di clienti nel casinò di Sanremo, presto la Kermesse inizia a godere del boom economico del decennio. Probabilmente atto definitivo dell’avvento della modernizzazione in Italia che porta un rapidissimo incremento di benessere sociale, diffusione di stili di vita massificati e creazione di una condivisa cultura nazionale. Tutte caratteristiche che si pongono in perfetta sinergia con un festival di musica leggera e popolare che, coadiuvato dal diffondersi di radio e televisione, diviene causa ed effetto del progresso:

La kermesse era uno dei simboli di un’Italia che, da società prevalentemente contadina, si avviava a diventare una società moderna. Grazie ai mezzi di comunicazione, la musica leggera si diffuse in misura maggiore e molti brani presentati al Festival ottennero grande successo commerciale, entrando nell’immaginario collettivo del Paese.

 

Inizia così l’ascesa del Festival di Sanremo, una crescita lineare e rapida che rendono l’evento presto centrale nell’immaginario del paese. Nella patria dí Gramsci, era impossibile che tutto ciò rimanesse scevro da mire politiche che miravano a incapsularvi la propria narrazione.

Marcello Giannotti, nella sua (presumo) autorevole Enciclopedia di Sanremo pubblicata nel 2005, scrive che mentre il centro e la destra hanno condotto, a vari gradi e livelli, delle crociate contro Sanremo a suon di interrogazioni parlamentari, la sinistra italiana – nello spirito di un certo pasolinismo – ha guardato con disdegno alla manifestazione. Così sull’Unità il 28 gennaio 1960:

“Una rassegna paesana cui il pubblico assiste passivamente, una festa dalle molte componenti negative, dal gusto dozzinale, l’erotismo edulcorato, il contenuto eternamente evasiva dalla realtà”

Al di là del contenuto della manifestazione – triviale e alienante – sul Festival di Sanremo si leva un problema politico essenziale della storia del paese: il controllo della RAI.

È a partire dai primi germi fra fine degli anni ‘60 e inizio dei ‘70 che al lento declinare dei consensi della DC inizia a venir meno la possibilità di fare di RAI (1) il catechismo permanente della Balena Bianca. Si va dunque verso la lottizzazione e la tripartizione di RAI 1, 2 e 3 a DC, PSI e PCI; forma finale raggiunta nel 1987 dopo una complessa e travagliata elaborazione.

Tuttavia, guardando in retrospettiva alla storia del Festival è probabile che la DC ne temesse la capacità antipedagogica da decenni. Già nel 1952, l’Italia vide in negli “alti papaveri” di Nilla Pizzi (che arrivò seconda con quella canzone e, al contempo, vinse l’edizione con un’altra) una satira contro i potenti e, soprattutto, contro Amintore Fanfani. La bassa statura dell’aretino sei volte presidente del consiglio era proverbiale al punto che nel 1971, durante l’elezione del Presidente della Repubblica che Fanfani presiedeva (con accesa sperenza di una promozione, in quanto candidato ufficiale della DC per il Quirinale) da presidente del Senato, un avversario vilmente gli scrisse su una scheda: “nano maledetto non sarai mai eletto”.

Altre linee di fuga dal saldo controllo democristiano della trasmissione compaiono nel 1961, quando venne presentata un’interrogazione parlamentare per vietare i “movimenti epilettoidi” di Celentano e dopo il suicidio di Luigi Tenco durante l’edizione 1967, quando Giovanni D’Antonio, onorevole napoletano delle fila DC, indossò il cappuccio dell’inquisitore e invocò la fine dell’organizzazione pubblica del Festival lanciando un appello alla magistratura affinchè ricercasse le cause del gesto del cantante nel consume di droghe.

Ma torniamo al 1987, vero momento di inizio della nostra storia. Che in politica non esistano ricette fisse e immutabili è assai noto, ciò che al più si ha sono cotture lunghe, virate e controvirate, tentativi ed errori. Ebbene, l’architettura partitocratica della Prima Repubblica e l’equilibrio lungamente e dolorsamente costruito sfociano nella tripartizione delle emittenti nazionali; vero e proprio capolavoro emerso da un’interpretazione raffinata e realistica del Manuale Cencelli.

Proprio nel momento in cui iniziano ad esistere tre canali RAI equiparati, compaiono anche (forse per caso, forse per necessità) i servizi Auditel, che cominciano a fornire statistiche sullo share delle trasmissioni.

Ebbene, proprio nel momento in cui l’affinità elettiva fra Sanremo e la partitocrazia primorepubblicana raggiunge un certo equilibrio, tanto il Festival quanto (quasi) cinque decenni di storia politica del Paese cominciano il loro declino. Della Prima Repubblica non diciamo nulla, in questo contesto, poiché le vicende sono già note. Per quanto concerne la kermesse sanremese, sarà sufficiente l’impietoso grafico qui sotto:

Il Cavaliere esistente e l’agonia ligure

Italo Calvino è, con ogni probabilità, l’intellettuale che più di ogni altro costituisce un riferimento per la sinistra italiana (ovviamente, trono conteso con Gramsci e Pasolini).

Vuole l’ironia che Italo, pur nato a Cuba, sia precisamente della città di Sanremo. Parte dell’impegno pubblico e politico profuso di Calvino è il racconto delle contraddizioni economiche che, in quei decenni, rendono la Liguria sempre più in una meta per la borghesia del Nord Italia. Una riflessione che prenderà forma in uno splendido e sottovalutato testo del 1958 dal titolo La speculazione edilizia.

Tuttavia, per i fini di questo articolo non serve approfondire gli aspetti meno noti della produzione calviniana e sarà sufficiente limitarci alla celebre e mainstream (d’altronde stiamo parlando di Sanremo) trilogia I nostri antenati. Qualunque persona che abbia fatto le scuole medie conosce Il barone rampante e Il visconte dimezzato mentre leggermente meno noto è Il cavaliere inesistente.

Ebbene, a rigor di logica la possibilità di un cavaliere inesistente implica quella di un cavaliere esistente. Come propriamente avviene nei traumi di guerra, basta la menzione di questo titolo onorifico per evocare l’immagine dell’ampio sorriso intorno a cui l’Italia ha ruotato per vent’anni.

Berlusconi, che costruì la sua immagine politica sulle macerie della Prima Repubblica, vedeva in Sanremo precisamente un rimasuglio di un’epoca passata. A questo baluardo strenuamente difeso della RAI, il Cavaliere oppose le carte del palinsesto Mediaset e le varie varie manovre di indebolimento politico.

Fino a quando l’Italia non entrò nell’età forte del berlusconismo, che possiamo far cominciare indicativamente con il secondo governo Berlusconi escludendo quell’esperimento istituzionale che è stato il governo maggio-dicembre 1994, non si può veramente parlare di una carica del Cavaliere contro Sanremo.

Ciò che inizia ad apparire, nel corso degli anni ‘90, sono semplicemente i segni del declino biologico. A questo proposito, si scrive in un libro sul tema:

 

Di lì a poco il Festival avrebbe dovuto sopravvivere addirittura alla caduta del sistema politico della Repubblica. I segni di questi cambiamenti a livello televisivo furono nettamente percepibili: per la prima volta lo sponsor ufficiale, il detersivo Dash, divenne parte dello spettacolo con interruzioni gestite da Renato Pozzetto, lunghi teatrini che a vederli a distanza di vent’anni fanno quasi tenerezza. La concorrenza televisiva inoltre era diventata un fatto di cui si discuteva notevolmente. Molte polemiche apparvero sui giornali a causa della concomitanza tra la prima serata e una importante partita Milan-Juventus trasmessa in contemporanea dal secondo canale della rai per il campionato di Coppa Italia. Ironicamente veniva citato Silvio Berlusconi, allora “solo” padrone delle reti Mediaset e presidente del Milan, che aveva alleggerito la programmazione nelle sue reti schiacciate dai due mega-eventi rai. Si disse che poteva solo sperare, per consolarsi, in una vittoria della sua squadra (Facci et. al., pp. 237-238)

Poca sorpresa, dunque, che dal 63,88% di share del 1990 si passi al 47,42% del 2001. Lungi da essere una semplice crisi passeggera, per l’italica kermesse si apre un vero e proprio declino radicale.

Nel 2001, infatti, il più lungo governo democraticamente sostenuto della storia d’Italia si insedia e il suo magnetico leader inizia a plasmare il paese. Gli scricchiolanti ascolti del 2003 vennero interpretati così sulle pagine di Repubblica: “[Sanremo] era svanito nell’etere in una sola stagione, appena sono entrati in viale Mazzini gli uomini di Berlusconi” (Facci, p. 279).

Un’aria nuova, uno spirito diverso che voleva vivere l’ebrezza leggera dell’Italia berlusconiana rompendo con tutto ciò che veniva dall’epoca antecedente. Un vero e proprio scarto culturale dal momento che, nel 2004, la terza serara registra un record profondamente negativo. Share misero, 29,28%, perchè la gran parte degli italiani davanti alla TV preferisce guardare il Grande Fratello su Mediaset. Il dominio sul Festival non è solo sul piano degli ascolti ma anche per quanto riguarda i contenuti. L’ospite speciale dell’edizione 2004 è, infatti, Vittorio Sgarbi.

Dalle parti di viale Mazzini inizia a diffondersi un tetro e giustificato sentimento di declino:

Che era successo al nostro paese? Nel tempo del premier più sorridente di tutta la nostra storia, della riscoperta della religiosità coincidente con il lungo pontificato di Giovanni Paolo II, e del nuovo miracolo italiano, a Sanremo sprizzava una cupezza ferita da tutti i lati

Un tracollo biologico naturale aiutato, catalizzato e fomentato dalla sempre più troneggiante figura del Cavaliere. Nel 2008 il risultato peggiore della storia del Festival, 36,56% di share totale con quasi tutte le serate a marcare un record negativo. Una delle responsabilità del flop porta ancora una volta la firma

Infatti, nella serata del 29 febbraio 2008 lo share della trasmissione viene superato dalla messa in onda de I Cesaroni su Canale 5.

Nel 2009, nonostante una ripresa dello share che si assesta su un 47% rimasto pressoché statico per quattro anni, Il Cavaliere mette a segno l’ultimo colpo: vince Marco Carta, scoperto e lanciato dalla scuderia musicale di Amici, puro feudo Mediaset.

Con l’emergere di problemi più urgenti che spaziano dalla crisi economica alle intercettazioni sulle feste di Arcore, il Cavaliere non ha più tempo per affondare colpi contro Sanremo. Certamente, l’ipotesi – emersa nel 2005 ma mai verificatasi – di una sua partecipazione come concorrente (non bisogna dimenticare la carriera canora di Berlusconi a fianco di Mariano Apicella) avrebbe costituito un ulteriore turning point di storia italiana ma ciò non era necessario. Infatti, sul finire dell’epoca berlusconiana Sanremo si presenta come un un rottame dell’antichità, decadente, smarrito e incapace di intercettare il favore del pubblico come una volta. In breve, Sanremo è fuori tempo massimo.

Tutte le strade sembrano portare verso un’incombente marginalizzazione, un morte lenta e inevitabile. Nessuno lo dice apertamente e con forza, forse intimorito dal peso di questa istituzione italiana. Infatti, per abbattere un monumento non basta un individuo qualunque, serve un picconatore professionista e, nel bene e nel male, l’Italia ne aveva uno che rispondeva al nome di Francesco Cossiga. Nel 2004, dopo essere stato rifiutato come ospite speciale da Pippo Baudo, Cossiga non risparmiò le seguenti parole:

 “Picciotto siciliano che da tempo non stimo. Considero invece disdicevole mettermi sul piano di un guitto, culturalmente di quest’ordine, quale è Pippo Baudo, la cui cosa più notevole è la gentile consorte. A differenza di lui che si è fatto ricco, spero soltanto emigrando dalla Rai a Berlusconi e da Berlusconi alla Rai, da Viale Mazzini a via del Plebiscito con un piccolo inciampo a Piazzale Clodio, per la mia partecipazione non avrei percepito neanche una lira e neanche  per una lira avrei gravato sulla Rai per le spese logistiche e personali” (qui)

Da notare, in questa panoplia di insulti creativi, è l’elemento economico. Due giorni dopo queste dichiarazioni il presidente solleverà esplicitamente l’antichissima domanda “chi paga?”. Così un breve articolo di Tgcom24:

Fancesco Cossiga ha attaccato il festival di Sanremo. L’ex capo di Stato vuole che siano fatte indagini per sapere quanto è stato pagato Baudo e gli ospiti “estranei a quel carattere di manifestazione della cultura nazional-popolare che costituì lo spirito originale del festival”. Con un’interpellanza ai ministri delle Finanze e delle Telecomunicazioni, Cossiga ha chiesto l’intervento della guardia di Finanza affinché vegli sullo spreco di denaro. (qui)

Tracollo dal punto di vista del successo televisivo, picconata cossighiana e ordini di austerità; sembra la ricetta perfetta per mettere la pietra tombale sul Festival della musica italiana. Ma se ciò non si è verificato, se siamo qui a scrivere questo articolo invocando ciò che 15 anni fa non si ha avuto il coraggio di fare, ciò è unicamente perché, stringendo la cinghia, un terzo capitolo sanremese stava per sorgere.

La zombificazione iperpolitica di Sanremo

Per comprendere l’estensione della questione è opportuno riprendere il grafico menzionato in precedenza.

Dato di fatto ineluttabile: i morti tornano in vita. Un’esperienza che ognuno di noi ha percepito negli anni recenti, in cui sembrano ritornate le caratteristiche – forse anche con maggior forza – le caratteristiche staliniste del Festival: onnipervasivo, ingombrante e totalitario.

Vista la prognosi dei 25 anni precedenti e l’emergere di una miriade di ulteriori forme di intrattenimento, la vita della kermesse sembrava ormai finita (d’altronde, era stato il moltiplicarsi dei canali televisivi a causare il primo tracollo).

Sanremo non è semplicemente sopravvissuto, è tornato a una gloria passata. E per fare ciò ha dovuto sfruttare una virtù molto professata ma poco praticata in Italia, la capacità di riformarsi.

La tesi che qui vogliamo proporre è semplicissima: Sanremo è rinato abbracciando l’iperpolitica.

Anton Jäger la definisce come la caratteristica fondamentale della nostra epoca. ‘Iperpolitica’ non riguarda solo un aumento numerico della mobilitazione (che, anzi, in paese come il nostro sembra non verificarsi affatto) ma soprattutto un modo di essere, un’estensione del motto debeavouriano “il personale è politico”. Quello era il XX secolo, oggi sembra quasi che sia più adatto il motto “tutto è politico”.

Vi è un’ulteriore motivo per cui l’iperpolitica è una cosa nuova e non si ritrova prima del nostro tempo, neanche nei movimenti autoritari di mobilitazzione permanente (i.e. nazifascismo e bolscevismo). Essa viene dopo l’antipolitica del primo decennio del secolo e la gestione tecnocratica della crisi economica. La rinascita della mobilizzazione politica avviene senza che le sue forme istituzionali riprendano una considerevole forza:

Despite these wild passions overtaking and remaking some of the West’s most powerful institutions — particularly in the United States — very few people are involved in the kind of organized conflict of interests that we might once have described as politics in its classical, twentieth-century sense, and anti-political sentiment has not declined (qui)

E se fosse vi fosse la coscienza di ciò alla base del deliberato tentativo (di successo, finché ci si attiene ai meri numeri dello share) di rendere Sanremo controverso? Sembra quasi che il desiderio implicito sia quello di ripodurre una versione piccola e macchiettistica – all’italiana – della guerra culturale che imperversa in altri paesi occidentali. Si pensi solo a quanto fuochi si sono accesi negli ultimi su argomenti disparatissimi che vanno dalle battute dei comici alle scenografie delle canzoni passando per Ucraina e Palestina.

In breve, ciò che vediamo oggi è una manifestazione che non vi più tanto della spettacolarizzazione della musica ma di quella della provocazione e del disaccordo. Ed è in questo spirito che fiumi di inchiostro (per la gran parte digitale) si versano per attaccare questo o quell’aspetto della trasmissione. Quasi ritenendo che l’oggetto profondo dell’opinare pubblico e della politica fosse quella settimana dell’inverno ligure.

Il dato gelido, matematico ed oggettivo con cui riniamo è sconfortante. Nel 1987 una media di 15.970.000 italiani ha visto Sanremo e 32.413.861 ha votato, nel 2022 11 423 000 di spettatori su 29.413.657 votanti.

Con una metafora automobilistica Jäger chiarisce perfettamente:

‘Hyper-politics’ is what happens when post-politics ends — something like furiously stepping on the gas with an empty tank.

Afuera

Di fronte a ciò rimaniamo con la classica, inevitabile domanda leninista: “che fare?”

Certamente, potrebbe essere ritenuto “di sinistra” proseguire su questa strada (perché alla fine siamo davanti a un servizio pubblico di successo), alimentare sempre di più lo zombie magari inalando ulteriormente dal calderone delle polemiche e spingendo affinché Sanremo sia un nostro laboratorio di modellazione culturale.

Tuttavia, un simile atteggiamento non comprende l’estensione del problema. Non si tratta ha che fare con un Sanremo rinato e con una restaurata partitocrazia primorepubblicana, ma piuttosto con una supremazia degli eventi sugli attori. È così che la destra, oggi, accusa Sanremo di essere il veicolo della propaganda di sinistra, mentre dall’altro lato si punta il dito contro tutte le impurità ideologiche e storture di certe manifestazioni.

È precisamente davanti a questo delirio che periodicamente il paese vive provando un certo piacere che il vero atto in grado di sparigliare le carte sta nello scartare completamente alle sue logiche.

Alla tetra mobilitazione totale della kermesse di Sanremo noi opponiamo il progetto semplice e lineare di farla sparire completamente. Niente riforme, niente rebranding, niente modernizzazioni. Una sola parola: Afuera!

Si tratta di far rivivere quel suggerimento flebile di Cossiga. Risparmiare, salvare denaro e recidere l’insulsa guerra culturale italiana sanremese per rendere finalmente possibile che si combatta una vera culture war italiana, in cui andare ai ferri corti con tutti i punti problematici della storia del paese. Ciò vale soprattutto per il fascismo, da affrontare apertamente e in faccia invece che cercandone microtracce nel programma di Sanremo per intercessione di qualche membro del governo.

È probabile che nessun lettore si senta mosso da questa proposta. Anzi, tutto finirà sicuramente stasera quando «inizia Sanremo!».

Accettiamo il decorso, auguri e buone polemiche! Nel fragore del polverone mediatico in cui fra pochissimo ci troveremo, ricordate di prestare attenzione a ciò che si sente in sottofondo. Quando le luci dell’Ariston si spengono, quando finisce il fumo sul palco, si spengono i microfoni e si stacca la luce, ascoltate ancora per qualche secondo. Potreste sentire il rumore di una motosega.

Redazione GD

Redazione GD

La Redazione è lo spazio di approfondimento e confronto pubblico dei Giovani Democratici di Milano Metropolitana!

Leave a Reply

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.