Pubblichiamo due opinioni, reciprocamente discordanti, sul caso Prodi degli ultimi giorni.
di Elsa Piano
22 Marzo, alla presentazione del suo ultimo libro a Roma,l’expresidente del Consiglio e presidente della Commissione europea Romano Prodi viene incalzato dalla giornalista di Quarta Repubblica Lavinia Orefici su un passaggio del Manifesto di Ventotene, che parla dell’abolizione della proprietà privata, citato anche la scorsa settimana in aula dalla presidente del consiglio Giorgia Meloni.
L’ex premier si scalda invitando la giornalista a contestualizzare tali parole, in modo già beffardo e molto istintivo.
La domanda della giornalista può essere stata provocatoria, fuori contesto, perfino strumentale sul piano politico. Ma questo non sposta di un millimetro la questione fondamentale: quando una donna fa una domanda, un uomo potente non ha il diritto di impartirle una lezione di modi stile signora Rottenmeier.
Il femminismo ci ha messo sempre di fronte a questo: il potere maschile, quando si sente messo in discussione da una donna, risponde spesso con il corpo, con lo spazio, con il controllo.
E ogni volta che giustifichiamo questo passaggio – anche solo un po’ – stiamo dicendo che ci sono domande che una donna non può fare, che ci sono toni che la autorizzano a essere rimessa al suo posto.
Lavinia Orefici attraverso una nota di rete 4 racconta successivamente in serata:
“Il presidente Prodi, oltre a rispondere alla mia domanda con tono aggressivo e intimidatorio, ha preso una ciocca dei miei capelli e l’ha tirata. Ho sentito la sua mano fra i miei capelli, per me è stato scioccante. Lavoro per Mediaset da 10 anni, inviata all’estero su vari fronti e non ho mai vissuto una situazione del genere. Mi sono sentita offesa come giornalista e come donna”
Oltre all’accanimento mediatico ( e aggiungo, il video dove si vedeva Prodi toccare i capelli è uscito su La 7, tv nota di sinistra) e agli aspettati attacchi della destra, che non prendono l’analisi che sto portando, vi è il fattore più grave, il tentativo di aggrapparsi agli specchi di Prodi.
Analizziamo pezzo per pezzo:
“Il gesto che ho compiuto appartiene ad una mia gestualità familiare.”
In questa frase sentiamo un eco familiare? Intravediamo una delle tante convinzioni che la cultura patriarcale ci ha tramandato, i gesti maschili non sono minacciosi, si tratta sempre di un malinteso, è il mondo che fraintende, sono “gli altri” che esagerano.
È una tipica strategia difensiva, l’uomo può occupare uno spazio, può toccare, mettere in atto atteggiamenti invasivi e se lo si fa notare, e perché si è frainteso.
Noi siamo da sempre educate a non invadere, a controllare i nostri gesti a volte definiti “emotivi”.
“Non ho mai inteso aggredire, né tanto meno intimidire la giornalista.”
Il cuore del discorso, l’impunità maschile. L’idea che non si è colpevoli finché non si ha l’intenzione è una trappola retorica che protegge sistematicamente i potenti (e spesso, i maschi) dalle conseguenze delle loro azioni.
Il punto non è cosa volevi fare è che cosa hai fatto, chi eri mentre lo facevi (un uomo, potente,anziano, verso una donna più giovane e meno influente) e come questo gesto è stato percepito da chi l’ha subito. Dobbiamo ribellarci contro la classica narrazione secondo cui le donne devono sempre giustificare la loro reazione, mentre gli uomini devono solo spiegare la loro intenzione.
“Penso sia un diritto di ciascuno […] rivendicare la propria storia e la propria onorabilità.”
Eccola, la parola magica: onorabilità.
Non “rispetto”. Non “responsabilità”. Onorabilità.
Una parola che ha il profumo stantio dei codici cavallereschi, delle reputazioni borghesi, delle vite perbene da proteggere a ogni costo.
Prodi non chiede di essere capito: chiede che il suo passato lo protegga dal presente.
Che l’autorità accumulata negli anni basti a neutralizzare l’impatto del gesto.
Che il suo curriculum sia più forte della mano nei capelli.
Ma l’onorabilità non è un attributo neutro: è un concetto profondamente di classe e profondamente maschile.
È ciò che ha sempre separato “l’uomo d’onore” dal “fanatico”, il “padre della patria” dal “polemico”, il “gesto scherzoso” dall’“accusa strumentale”.
”…la strumentalizzazione e persino la derisione dilaganti, anche grazie alla potenza della Rete.”
Ancora una volta, lo sguardo è autoriferito: non ci si interroga sul perché il gesto abbia fatto indignare, ma sul fatto che questa indignazione sia “troppo rumorosa”. La rete non è vista come uno spazio di visibilità per chi normalmente non ha voce (donne, giovani, precarie, giornaliste non allineate), ma come una minaccia all’onorabilità del potente.
“Come se un’intera vita non contasse…”
Ragazze, vi è familiare pure questa strategia retorica? “Ma lui è una brava persona”, “non è nel suo stile”, “ha fatto tanto per il Paese”
È la santificazione dell’uomo di potere, che trasforma ogni sua azione in un’anomalia e ogni reazione femminile in una minaccia all’ordine simbolico.
Ma una vita di privilegi e incarichi non può diventare un lasciapassare etico. Non basta aver scritto libri, guidato governi o ricevuto onorificenze per poter impunemente usare il proprio corpo – e il proprio status – per zittire, intimidire o ri-mettere al proprio posto una professionista.
Infine, la giornalista Lavinia Orefici,in tutto il suo discorso non ha nome.È “la giornalista” e basta. Una figura vuota, funzionale solo alla narrazione dell’uomo. La sua esperienza viene ignorata, i suoi sentimenti non nominati, la sua reazione nemmeno contemplata. È un’assenza pesante, perché è esattamente la cancellazione simbolica delle donne dallo spazio pubblico, che il femminismo combatte da secoli.
“Non si può più accettare la simpatia di un uomo. Essa è sempre, in ultima analisi, una forma di dominio.”
-Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel (1970)
Questo frammento potentissimo, tratto dal manifesto cardine del femminismo italiano radicale, coglie esattamente il cuore della questione.
Sputiamo su Hegel è il rifiuto netto di una cultura maschile che ha preteso per secoli di “comprendere” le donne, decidendo cosa fosse giusto per loro, in nome della ragione, della dialettica, della storia. Ma dietro ogni simpatia maschile si nascondeva – scrive Lonzi – una forma di addomesticamento.
La simpatia come strategia pedagogica.
Il gesto affettuoso come forma di controllo.
Quel tocco di paternalismo che non consola, ma insegna, che non dialoga, ma ridimensiona.
il paternalismo non è mai solo paternalismo: è gerarchia.
Il discorso di Prodi è emblematico di una cultura politica e maschile che non ha ancora imparato a chiedere davvero scusa. Le sue parole non sono un atto di riparazione, ma di autoassoluzione. Dietro la forma gentile, la compostezza istituzionale e l’appello alla propria carriera, si nasconde l’arroganza antica di chi è convinto di non dover rendere conto a nessuno.
In un partito dove la lotta femminista dovrebbe essere costitutiva, questo silenzio è assordante. Abbiamo la prima segretaria donna, Elly Schlein, che solo pochi giorni fa ha dichiarato che
“Mi si dicono cose che nessuno si sognerebbe di dire a colleghi maschi.”. Eppure, resta in silenzio.
Forse per convenienza. Forse per mancanza di una posizione forte. Forse per paura di spezzare un equilibrio interno.
Ma il femminismo si pratica. Non si usa a slogan.
Si condannano atteggiamenti sessisti anche se messi in atto dai “compagni”.
di Michelangelo Colombo
Partiamo da una premessa: Romano Prodi ha sbagliato, senza se e senza ma. Quello che però ritengo sia altrettanto sbagliata sia stata la macchina mediatica mossa contro l’ex Presidente della Commissione Europea. Ritengo che ci sia stata una reazione esagerata da parte del popolo del web per una vicenda che, si sarebbe risolta molto più facilmente con delle scuse da parte di Prodi nei confronti della giornalista.
La gente sui social network e su Internet si è indignata considerando gravissimo il gesto di Prodi. È importante saper dare un peso alle cose. Con la polarizzazione delle opinioni diverse all’interno delle società occidentali che stiamo vivendo al giorno d’oggi, stiamo andando verso un fanatismo pericoloso che contrappone due schieramenti: da una parte un gruppo di uomini e donne che vede atteggiamenti sessisti e paternalisti da parte di ogni uomo; dall’altra parte abbiamo un altro gruppo, spesso formato da uomini, e ha sviluppato una misoginia pericolosa.
Dobbiamo imparare a capire che una persona può sbagliare, ma non per questo bisogna aggredirla mediaticamente, soprattutto se è una persona anziana con retaggi culturali diversi e lontani. da quelli attuali.