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Solo fra qualche decennio saremo in grado di valutare, con lo sguardo vittorioso ma provato di chi -forse- è sopravvissuto alla tempesta, il reale effetto storico che l’invasione russa dell’Ucraina ha avuto sulla coscienza europea. Senza dubbio, all’indomani dell’infausto 24 febbraio 2022, sembrava che un secolare aforisma di Nietzsche stesse, infine, acquisendo realtà:

«Non dico questo auspicandolo: a me starebbe invece a cuore l’opposto – cioè un tale aumento di minacciosità della Russia, da far sì che l’Europa si sentisse costretta a decidere di divenire anch’essa egualmente minacciosa, di acquisire, cioè, una volontà unica, […] una tremenda volontà propria, in grado di proporsi mete al di là dei millenni […].»                                                         (Al di là del bene e del male, 6.208)

I segnali che sembravano legittimare la fiducia nel fatto che d’innanzi allo scatenamento bellico, l’Europa avrebbe finalmente trovato quel guizzo verso un’unione autentica, che da decenni manca, sono stati presto controbilanciati da un crescente numero di frizioni, scissioni e rotture che, in un continente già sommerso dal caos e dalla zoppa ripresa post-pandemica, sono andati via via moltiplicandosi.

Nello sconforto e nella generalizzata miseria in cui versiamo, andare ad analizzare i punti di rottura, gli antichi amici, le vecchie promesse e i tradimenti compiuti può, se non altro, aiutarci a gettare luce sul nostro futuro e riaccendere un fioco barlume di speranza.

Quasi amici

L’avvento della guerra ha riportato, nelle orecchie degli europei, il rumore assordante di situazioni politiche che, ingenuamente, avevamo arginato a eco dei libri di storia. Fin dalle prime settimane, la centralità dell’Ucraina come paese agrario avanzato produttore di considerevole parte delle derrate alimentari mondiali è tornata alla rivalsa. Nel momento in cui la via marina, attraverso cui la gran parte delle esportazioni ucraine avvenivano, è risultata bloccata dal conflitto, l’Unione Europea si è impegnata nella costruzione di alcune “solidarity lanes” che avrebbero permesso, all’Ucraina, di esportare i suoi prodotti per via terrestre.

Prontamente, le insufficienze logistiche e i fuochi incrociati della politica hanno portato i paesi UE confinanti a bloccare le importazioni di grano ucraino, nel momento in cui queste hanno invaso i mercati locali e messo in pericolo la stabilità economica degli agricoltori locali. Ad aprire la fila sono stati i governi sovranisti e ultranazionalisti di Polonia e Ungheria, che hanno rapidamente messo da parte le differenti inclinazioni verso la Russia (iperbellicista la prima, simpatizzante la seconda) e si sono ritrovate nella concorde opposizione a Bruxelles. A ruota, governi più moderati, come quello slovacco, bulgaro e rumeno, si sono uniti alla lista.

Prontamente, l’Unione ha sollevato critiche ai paesi orientali (“siete sempre voi due!”) ricordando che la politica commerciale deve essere svolta a livello comunitario e, pertanto, azioni unilaterali ed individuali non sono tollerabili. Dopo di che, è necessario fare i conti con gli interessi nazionali e popolari, per quanto divisivi questi possano essere. Sotto questo aspetto, si sono avviate delle trattative affinchè sia possibile sbloccare il grano ucraino dall’impasse logistico e politica in cui si trova.

Per quanto queste trattative possano terminare con esito positivo, ancora una volta risulta disarmante la facilità con cui il meccanismo europeo si inceppa, si dimostra non oliato e, alla prima frizione, pronto a piombare verso l’ennesima “crisi”. Questa storia non fa che ricordarci quanto poco lungimirante sia stata la dirigenza politica europea negli ultimi decenni; basti pensare che un articolo del Guardian datato 2010 titolava “Ukraine: forgotten granary of Europe”.

Litigio in famiglia

Le rotture, tuttavia, non avvengono solo fra la “vecchia Europa”, il nucleo storico, e i paesi orientali, relative neoaggiunte dopo il crollo della Cortina di ferro.

Il ritorno dell’incubo bellico (che, ripetiamo nuovamente, era stato ingenuamente rimosso) ha risollevato un gran numero di interrogativi circa la natura della politica estera che l’Unione deve intraprendere. In questo contesto, ci muoviamo con lo spettro del precipitare in un’unione puramente formale e in una disunità di fatto.

Superato l’iniziale accordo generale di condanna alla Russia, l’applicazione delle sanzioni e il momentaneo rafforzarsi del Patto Atlantico, vedute differenti si sono presto scontrate.

Ad essere posto in questione è proprio il futuro della nostra decennale alleanza con gli Stati Uniti (sulle cui mosse strategiche ci soffermeremo nel prossimo paragrafo). Qualche settimana fa Emmanuel Macron, già alle prese con una gravissima situazione di politica interna, ha detto, al ritorno da una visita a Pechino, che l’Europa non deve essere vassalla degli Stati Uniti nello scontro con la Cina su Taiwan, dichiarando:

«Noi [europei] abbiamo un interesse nell’accelerare la questione Taiwan? No. La cosa peggiore sarebbe pensare che gli europei devono seguire ed adattarsi a un ritmo americano o ad una eccessiva reazione cinese» [traduzione mia]

Macron, insomma, ha invocato un’Unione Europea più indipendente ed isolata, che agisca in maniera più distante dagli Stati Uniti e, in generale, si muova verso un certo grado di isolamento. In questo senso, è necessario leggere anche il recentismo chips act oltre che la gara agli incentivi green.

Contro le dichiarazioni di Macron si sono sollevate le voci di vari rappresentanti di partiti europei e, soprattutto, quelle della Germania (ma non di Scholz, che appare sempre più silente). Nello specifico, è stata la ministra della difesa Annalena Baerboc a ribadire l’assoluta saldezza dell’UE nei confronti degli Stati Uniti e la vicinanza a Taiwan. Berlino è razionalmente preoccupata da un possibile distacco poiché ciò significherebbe trovarsi in un’unione solo con Parigi, economicamente meno solida ma militarmente superiore in maniera netta.

Nella frizione fra Germania e Francia spetta agli altri paesi dell’Unione, e specialmente al “terzo”, l’Italia, lavorare per costruire un piano attraverso cui una politica più sovrana ed indipendentemente di livello europeo possa diventare possibile. Infatti, per quanto si possa discordare con Macron su posizioni politiche e valori, bisogna riconoscere che Le président solleva un tema cruciale e, in sostanza, risponde alla presa di posizione di Biden.

Hey Joe, I heard you shot your mama down”

Non si smetterà mai di interrogare il significato culturale che “l’America” -termine ombrello per indicare, geopoliticamente, gli Stati Uniti e, storicamente, una sorta di promessa nell’alterità- ha avuto per l’Europa.

Ormai dall’elezione Trump -e forse da qualche anno prima- il sentore che l’aquila a testa bianca, uscita vincitrice dalla Guerra Fredda ma non dalla pace successiva, sia malata. Sembrano finiti non solo i tempi in cui Bush lanciava divisioni a combattere in ogni angolo del mondo e in cui si viveva nell’idea di essere davanti alla “americanizzazione”, “occidentalizzazione” o “cocacolizzazione” del mondo. Nulla appare oggi più insignificante della teoria degli archi d’oro, secondo cui due paesi con il McDonald non si sarebbero mai fatti la guerra fra di loro, massima postmoderna in cui riviveva la secolare idea del “doux commerce”.

Giunti in un’epoca in cui la pace non è più delegata al commercio, il rapporto si inverte e il commercio viene delegato alla pace. È in questo senso che gli americani hanno riscoperto, dopo decenni, la loro antica passione per l’isolazionismo e l’eccezionalismo.

Macron, nelle sue dichiarazioni, sta reagendo alle politiche varate dall’amministrazione Biden negli ultimi mesi. L’Inflation Reduction Act, infatti, ha segnato un cambio di rotta per gli Stati Uniti nella direzione di un’economia verde ed ecologicamente sostenibile. La notizia, di per sé, sarebbe buona ma è assai meno appetibile nel momento in cui questo ha portato molte aziende europee ad annunciare investimenti sul suolo americano,a discapito dell’Europa. Inoltre, lo stesso chips act europeo -che menzionavo prima- si inserisce nel solco del Chips and Science Act, anche questo nell’orizzonte di una progressiva indipendenza sovrana statunitense.

Conclusione: dove andremo?

Alla luce di quanto abbiamo mostrato, sembra che l’aforisma di Nietzsche citato in apertura sia solo un vagheggiamento da filosofi e che, ancora una volta, la realtà sia assai più misera e povera rispetto alla speranza. Di certo, “l’aumento di aggressività della Russia” si è verificato ma, di contro, nessuna volontà comune, nessuna forte volontà europea, si è alzata.

Davanti all’aumentare della frammentazione e al moltiplicarsi delle storture la crisi sembra via via sempre più cupa. Abbandonati in questo cappio stringente, non possiamo far altro che impegnarci costantemente nel tentativo di una riunificazione che, al giorno d’oggi, sembra impossibile ma in cui non possiamo non sperare.

Redazione GD

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La Redazione è lo spazio di approfondimento e confronto pubblico dei Giovani Democratici di Milano Metropolitana!

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