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di Giovanni Colombo

Nella conferenza stampa del 4 gennaio, la premier Giorgia Meloni è entrata nel merito del programma di privatizzazioni che il suo governo starebbe cercando di mettere in atto. Seppur il ministro dell’Economia e Finanza Giorgetti abbia parlato di “razionalizzazione del patrimonio delle partecipate” e di “fare ordine”, la mossa sembra essere chiaramente finalizzata ad incassare proventi (20 miliardi in tre anni, secondo il NaDef, su stime che per parecchi economisti potrebbero essere imprecise e depresse dal deprezzamento dei titoli), da utilizzare per coprire il deficit della finanziaria e ridurre il debito. 

Il termine “Privatizzazione” ha tuttavia mutato il proprio significato nel corso dei decenni. Le grandi “privatizzazioni” degli anni 90 prevedevano la cessione dell’intero capitale delle partecipate, attraverso la vendita totale o lo smembramento di società che poi venivano affidate a diversi gruppi privati. Trend di privatizzazione più recente, invece, è quello del sistema misto pubblico-privato, favorito anche dal Governo Meloni, che ha intenzione di vendere solamente alcune quote delle società partecipate (per ora si parla di Eni, Poste Italiane e Ferrovie), di fatto cercando di fare cassa pur mantenendo il controllo di tali società, in cambio di lauti ritorni economici al settore privato.

Anche il Presidente del Consiglio Meloni (colei che solo qualche anno fa si scagliava con rabbia felina contro le privatizzazioni) giustifica la manovra come “lontana anni luce dal passato, quando erano regali milionari a fortunati imprenditori ben inseriti”, sebbene il rischio di vedere fondi di investimento americani e scaltri imprenditori in cerca di fortuna nel redditizio settore pubblico non sia per niente accantonato. 

Inoltre, dagli scanni dell’opposizione come anche da alcuni economisti, il rischio maggiore è quello di svendere asset strategici pubblici del paese. L’illusione, alimentata dall’esigenza delle grandi privatizzazioni degli anni ‘90, che l’uscita dello Stato potesse creare gruppi forti, internazionali e gestiti in maniera più efficiente, si è spesso infranta sugli scrupoli di imprenditori che approfittarono della svendita per passare dal settore manifatturiero a quello dei servizi come sicura fonte di reddito, al riparo dalla concorrenza internazionale. Invece di trasmettere know-how imprenditoriale ed efficienza al settore pubblico, gli industriali sono più volte entrati negli affari di privatizzazioni perché protetti dalla politica. “con le privatizzazioni ci si attendeva una crescita dimensionale all’insegna dell’efficienza e dell’innovazione e non una generale riluttanza al rischio pacata solo dal richiamo irresistibile dell’affare” spiega Ferruccio De Bortoli sul Corriere.

Anche sotto i governi Amato e Ciampi caratterizzati da grandi onde di privatizzazione, vi è sempre stata una mancanza di lungimiranza nel saper valorizzare gli asset strategici del nostro Paese (tanti sono i casi, da Tim a Iri, Efim, Federconsorzi, Egam). Ad onore del vero, vi sono anche stati casi in cui oculate privatizzazioni (Stet, Sme, Finsider) sono state in grado di rilanciare l’economia del paese e generare fusioni strategiche, ma sempre attraverso un parziale smembramento delle partecipate. 

Il prof. Alessandro Penati sottolinea che un piano di privatizzazioni esclusivamente finalizzato a fare cassa per la manovra finanziaria, si rivela dannoso per la comunità nel lungo termine, poiché viene ceduto un bene capitale per una spesa corrente, “come se una famiglia liquidasse parte dei propri risparmi investiti in fondi di investimento per pagarsi delle vacanze che altrimenti non si potrebbe permettere”. 

La visione in generale sarebbe quella secondo la quale non basti vendere quote delle partecipate una tantum. Vendere pur mantenendo il controllo con quote di maggioranza non risolverebbe uno dei maggiori problemi delle partecipate, ovvero quello delle nomine: finché lo Stato possiede il controllo sul CDA, potrà nominare i vertici (si veda il recente caso Enel) e fare politica di redditi per accaparrarsi qualche voto in più, rinforzando quel sistema di familismo politico e populismo che era stata proprio una delle ragioni per le grandi privatizzazioni degli anni ‘90. 

Occorre quindi fare un piano strategico delle partecipate, individuare le più interessanti dal punto di vista di settore e di ricaduta industriale per il paese, e quotarle in borsa. Tale piano si può attuare solo guardo al costo opportunità del piano di privatizzazioni, ovvero gli investimenti che lo Stato potrebbe fare con i capitali guadagnati dalla vendita delle azioni delle partecipate. Ad esempio, se il capitale servisse per creare un circolo virtuoso di infrastrutture per la ricerca e lo sviluppo di tecnologie, per la sanità, per impianti di efficienza energetica, per la generale costruzione di capitale umano che aiuterebbero a rivalutare l’economia del nostro paese, vi sarebbero pochi dubbi. Tuttavia, il governo non ha una tale oculata visione, come si capisce chiaramente dalla manovra finanziaria, che non prevede niente di tutto ciò, tagliando fondi per la sanità e non affrontando adeguatamente i temi dell’energia e della ricerca.

Una soluzione, forse ancora più estrema, sarebbe vendere la maggioranza delle quote, di fatto rendendo lo Stato un’azionista di minoranza che possa esercitare quello strumento di Golden Power previsto dalla legge, permettendogli di restare un attore strategico nell’economia, e favorendo l’ingresso di privati che sarebbero però obbligati a sottostare ad alcuni vincoli imposti dallo Stato stesso. Questa manovra, seppur di fatto vendendo la maggioranza degli asset pubblici, garantirebbe la presenza dello Stato in settori strategici e uno (sperato) efficientamento nella fornitura di servizi pubblici, risultando di fatto più efficiente di una forma societaria mista a controllo pubblico.

Il Governo Meloni batte cassa e guarda alle nomine, senza alcuna prospettiva a medio-lungo termine. Il piano di privatizzazioni rischia di rivelarsi l’ennesima svendita a gruppi internazionali e potrebbe risultare meno efficiente del previsto. Le premesse non sono granché.

Redazione GD

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