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di Francesco Petracca

Milano, 10 maggio, ore 17:50. Sul palco ci sono cinque silenziosi pulpiti con la superficie in cartone. Su ogni postazione è sdraiato un microfono, per ciascuno degli ospiti. Sono, da sinistra a destra, Carlo Calenda, Guido Crosetto, Antonio Tajani, Giancarlo Giorgetti e
Matteo Renzi – e che Renzi sia ultimo significa che “da sinistra a destra” è qui inteso anche politicamente. Cinque leader nazionali, tre dei quali anche ministri centrali del governo Meloni. ù

Il tema è l’Europa. La moderatrice e il moderatore parlano di dibattito all’americana (definizione di rara secchezza, possibile non ne esista una migliore?): il tempo per ogni risposta è cadenzato – tre minuti; ognuno ha a disposizione un diritto di replica di un minuto e mezzo. La piccola platea del teatro, tutta incastonata in questo esiguo spazio, vibra nelle poltroncine, attende con un’ansia quasi timorosa questo evento così raro. Diversi leader tutti insieme, finalmente limitati da regole comuni, non più adagiati nell’alcova dei propri comizi autoerotici. Lə spettatorə aspettano allora il confronto, il confronto vero, qualcunə forse il sangue. In prima fila i nostri protagonisti siedono in un altro ordine rispetto al palco, ma sempre uno accanto all’altro, con una sola eccezione: tra Renzi e Calenda si intromette Mariastella Gelmini, poverina, messa lì per separare i due ex innamorati ancora troppo feriti. Poi tutti salgono, alcune luci affievoliscono mentre altre convergono sul palco. Sono tutti in giacca e cravatta; Crosetto vi ha aggiunto un pudico panciotto. Tajani ha optato per un completo sul grigio lucido, professionale e solido.

Prima ancora di intervenire e proferire parola, il clima tra i nuovi Backstreet Boys è particolarmente gioviale. Giorgetti si muove
lasciando andare le braccia, ha uno stile totalmente dimesso, quando prende il microfono e parla sembra non accorgersi che delle parole gli stanno uscendo dalla bocca, come se andasse tutto in automatico. A una domanda sulla Russia esordisce con un perspicace: “eh, siamo in
guerra”, con la mano in tasca, controvoglia, a dar l’impressione che sia tutta lì la risposta, poi si riaggiusta e costruisce un discorso. Alla fine della serata ha parlato quanto gli altri, eppure qualcunə potrebbe giurare di non essersi accortə della sua presenza. Scherza col compagno di
banco Renzi mentre gli altri parlano, gli si avvicina, guarda in basso e dice due cose, sorride cercando l’approvazione del leader di Italia Viva.

Ma il vizietto della chiacchiera ce l’hanno anche Calenda e Crosetto, dall’altra parte, al punto che, mentre la moderatrice sta
formulando una domanda, il collega deve prendere il microfono e sibilare un fin troppo educato: “shhh!“. Sembra la reunion del liceo, cinque amici che si prendono in giro, “tu hai candidato questo, tu quell’altro”, come se raccontassero vecchie marachelle adolescenziali, il tutto incorniciato da splendenti sorrisi. Ci manca poco che uno dei cinque alzi un dito e ordini un giro per tutti.

Al centro, un po’ isolato, Tajani sembra l’unico politico. Le mani ferme sul pulpito, la voce decisa. Dopo un intervento un po’ esuberante e tendenzioso di Renzi (sempre lui), il Ministro degli Affari Esteri si limita a dire che “qui non siamo a teatro” e invita tutti a un ritorno alla serietà. Però scivola anche lui: durante l’appello finale prova ad estrarre qualche frase sull’identità, sul ruolo del PPE come sorgente di DNA europeo, ma per un attimo si rende conto che sta tornando nel punto dove si era impantanato a Pescara (“quando tu sei quello che sei, allora…” [visualizzabile qui a 2:08:40]), quando aveva mischiato tutto e detto il contrario di quello che pensava, mentre i militanti di FdI lo fissavano attoniti.

Calenda è un po’ ingobbito e cerca una posizione comoda, guarda e ascolta con attenzione, con le labbra serrate e giudicanti. Il suo è un tono che prova a incanalarsi nel genere epico: stringe il pugno con fervore, parla di storia, si sofferma sull’Europa finalmente unita dopo
che si è fatta la guerra e descrive l’unione come un’impresa unica nella storia dell’uomo (sic). Lui e Crosetto hanno caldo, si sventagliano con un pezzo di carta e una paletta; e in quel loro movimento, quasi all’unisono, ritorna l’immagine di Moro che passeggia per i litorali laziali,
rigorosamente in camicia, giacca, cravatta, panciotto, soprabito, pantalone lungo, calzino spesso, scarpa irrespirabile.
Fra tutti, Renzi è quello che emerge di più. Ha scelto il copione del cabarettista, mette in fila una battuta dopo l’altra, fino a risultare eccessivo, stucchevole. Dopo un paio di minuti è una fatica continuare ad ascoltarlo. Sono passati sette anni e mezzo dal referendum del 2016: il politico-Renzi sembra invecchiato di almeno quattordici o quindici. Appare stanco, chiede apertamente voti per la sua lista con la disperazione negli occhi, lo circonda una pesantezza che prova in tutti i modi a nascondere con la risata. Ma è un riso nervoso, è il motto di spirito di un uomo che avverte il riverbero del proprio epilogo.

Mentre parla, le sue parole rotolano verso un fondale ovattato e risale invece la domanda che pervade l’aria: che fine ha fatto il
Machiavelli di un tempo? Nella sala è introvabile. Meglio così. Certamente noi non eravamo venuti predicando lo scontro, ma questo è uno spettacolo altrettanto osceno. E non è neanche colpa dellə ragazzə che hanno organizzato e che zelatamente domandano. Sono i cinque sul palco che rovinano tutto. Il dibattito all’americana (ancora) si è trasformato in un gioco, forse perché non sono abituati o forse è
una strategia comune. C’è un clima di festa troppo dolciastro, sembra tutto finto; in una sera la campagna elettorale è diventata un divertissement. Lo scopo di questo confronto – di ogni confronto, è indicare la divergenza di opinioni e dimostrare la forza della propria prospettiva. Ma se gli interrogati si prendono in giro gioiosamente, parlano sottovoce, elargiscono buffetti e strette di mano – tutto questo insieme e ripetutamente – allora l’uniformità dei rapporti umani annulla l’eterogeneità delle argomentazioni. È come se, per timore di non riuscire a sostenere le proprie tesi, si coalizzassero tra loro, rifiutandosi di partecipare al dibattito. E così, alla fine, nonostante le domande precise e la possibilità di rispondersi, noi udiamo nient’altro che cinque comizi tagliuzzati e incollati, l’inquietante istantanea di un’umanità (e una politica) che non si parla.

A qualche centinaio di metri, intanto, lə studentə fissano le tende in Statale a supporto del popolo palestinese. Sul tema non c’è neanche una parola, qui si ride, siamo tutti amici. Troppo facili sono i confronti nostalgici: si rideva della seriosità dei politici, dei loro volti imperiosi; qua sono loro a scherzarsi e noi a metterci le mani nei capelli. (A proposito di capelli, Tajani a un certo punto parla della passione che mantiene giovani anche quando si hanno i capelli bianchi e Crosetto accanto a lui alza un sopracciglio, accenna un sorriso sul lato sinistro del volto, perché i capelli lui non ce li ha).

Concluso il tutto, negli occhi ci rimane un groviglio di sentenze innocue, sillabe giustapposte senza un’idea o un significato. I cinque hanno prodotto un unico grande nuvolone di pensieri che non troverà posto nel nostro scaffale e si disperderà, passo dopo passo, minuto dopo minuto. E quando ormai siamo altrove nella città, siamo già dimentichi di tutto, finalmente liberi da un ronzio fastidioso. Il cervello ha già espunto l’inutile.

 


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