Da qualche anno, destra e sinistra in tutto il mondo hanno ricominciato a dibattere animosamente dei monumenti. A colpi di cancel culture e gender ideology, il confronto politico si gioca, al giorno d’oggi, anche sulla cultura, la memoria e i ricordi sociali. Statue?! è la rubrica dei GD Milano che intende affrontare la questione, analizzando casi da tutto il mondo per gettare luce su questa dinamica contemporanea!
di Giuseppe Pepe
Il 2020 sembra distantissimo, quasi di un’altra epoca. Fu l’anno dell’uccisione di George Floyd per mano di un poliziotto della città di Minneapolis, in Minnesota, delle manifestazione al grido di “black lives matter”, di una rinnovata presa di coscienza delle disuguaglianze tra euroamericani e la popolazione statunitense di altre etnie.
Il triste evento diede nuovo impulso a sfregi e rimozioni di molti monumenti presenti negli Stati Uniti, fenomeno che già si era manifestato dal 2015 in seguito al massacro di Charlestone. La decisione delle amministrazioni locali di eliminare statue e memoriali che si consideravano fortemente legati alla supremazia del potere bianco aprì grandi dibattiti e abbracciò vari personaggi storici legati alla storia americana di diverse epoche: dal generale Lee, fino a Cristoforo Colombo.
Lo sfregio e la rimozione di monumenti legati a un passato scomodo o ad atti e comportamenti anacronistici rispetto alla visione del mondo, occidentale, contemporanea non è una prerogativa americana. Cambiano le motivazioni ma l’atto di imbrattare statue, ricordandone così i lati negativi del personaggio rappresentato, si ritrovano anche nella città di Milano, dove la statua in memoria del giornalista Indro Montanelli vanta il maggior numero di atti di scherno. Nel 2012 viene imbrattata con della vernice rossa e viene posta una finta bomba sotto al cappello. Nel 2018 vengono apposte delle frasi contro il rapporto che Indro Montanelli intrattenne con una bambina eritrea di 12 anni, il più famoso e controverso caso di madamato in Italia. Nel 2019 ritorna la vernice rossa in seguito a un corteo femminista e infine, dopo le richieste di rimozione, il fatto si ripete nel giugno del 2020.
Non solo il giornalista italiano ma anche altri monumenti in Italia, per ragioni diverse, sono oggetto di richieste di rimozione come quella di Giuseppe Garibaldi a Napoli nell’omonima piazza spontaneamente rinominata, tramite sostituzione nottetempo delle targhe in marmo da parte di alcuni anonimi cittadini, in “piazza della ferrovia”.
Il fenomeno di interazione diretta della popolazione con i monumenti è qualcosa a cui siamo poco abituati, nonostante i numerosi casi nella storia: dopo gli sconvolgimenti del secondo conflitto mondiale, delle necessarie demolizioni e modifiche apportate nelle principali città italiane e tedesche per cancellare i segni pesanti di un passato infelice, il “monumento” è stato l’elemento fisso intorno a cui si modificava la città. Le classi dirigenti e le amministrazioni hanno storicamente dal secondo dopoguerra inteso i monumenti come elemento da conservare e dunque da mantenere. Questi ultimi appaiono e vengono trattati in modo passivo rispetto a una società in continuo mutamento sia nella materia, la città, sia nei valori. Ci stiamo riferendo ai “monumenti voluti”, definiti così da Alois Riegl, ovvero a tutti quei luoghi volti a raccontare ed esaltare la storia di una nazione, della sua classe dirigente, dei suoi valori e delle sue comunità. Con questa definizione appare chiaro il motivo per cui dal secondo dopoguerra siano stati, tutto sommato, limitati gli atti di sfregio o le rimozioni ai monumenti del passato: il nuovo assetto politico costruito dalla resistenza al nazifascismo e un nuovo sistema economico innescato con la ricostruzione portarono con sé una lettura critica della storia che, come in qualsiasi altra epoca, ha definito anche i personaggi e i valori che dovevano diventare monumento, contribuendo alla narrazione celebrativa nazionale.
A distanza di anni anche se le statue sono sempre le stesse, o ritraggono personaggi propri di un passato prima celebrato senza dubbi, ciò che cambia è lo sguardo dei cittadini e il significato che questi ultimi attribuiscono a un determinato monumento.
Così Indro Montanelli da grande giornalista diventa simbolo del potere dell’uomo cisgender bianco e della supremazia maschile nella società occidentale o Giuseppe Garibaldi, qui anche per complicità di un certo filone di revisionismo storico, diventa da eroe risorgimentale a oppressore del meridione.
Da qui nascono le tante richieste di rimozione e i successivi dibattiti sulla correttezza nell’eliminare o meno i “racconti di pietra” della storia événementielle e dei suoi “eroi”, oggi spesso finiti nel mirino della cancel culture. I numerosi confronti non hanno prodotto un metodo di azione da applicare quanto più, come spesso accade, due tifoserie prossime allo scontro in occasione di eventi similari.
Chi scrive ritiene che più che uno scontro sia quanto mai necessario avviare un pensiero critico rispetto a come ci poniamo verso i monumenti del passato e, consequenzialmente, muovere i passi verso una soluzione capace di garantire il “racconto di pietra”, incontrando i valori di una contemporaneità in cerca di nuovi simboli.
Il comportamento proprio delle amministrazioni e delle classi dirigenti del nostro Paese è sempre teso a un certo conservatorismo in materia dei luoghi storici in assenza di interessi economici. Ciò, per quanto possa risultare un’abdicazione di responsabilità, è capibile considerando il valore del patrimonio storico-architettonico. Inoltre in presenza di una classe dirigente non pratica alla conoscenza dei beni culturali il “non fare” diventa mezzo per evitare il “fare male”. Al di la dei monumenti questo coinvolge anche l’architettura del passato. Proprio da quest’ultimo campo da diversi decenni l’approccio di professionisti e accademici può gettare le basi per un nuovo atteggiamento verso i monumenti: dalle statue agli elaborati più astratti.
L’idea propria dell’architettura, che prende piede con Camillo Boito e con il “restauro filologico”, è l’attività di conservazione previa diversificazione dell’elemento storico dalle aggiunte. Inoltre la “Conservazione dell’architettura” pone tra i suoi principi anche la rifunzionalizzazione di un bene architettonico, al fine di evitare l’abbandono e quindi l’ammaloramento, garantito tramite interventi principalmente reversibili, ovvero capaci di non lasciare traccia sulla struttura storica in caso di rimozione.
Da queste caratteristiche: diversificazione delle aggiunte, rifunzionalizzazione, reversibilità si muove un possibile approccio proposto per i monumenti.
Se superassimo la visione del monumento come prodotto finito nella città e nella società e facessimo nostro il pensiero che come si stratifica la città così devono seguire i suoi monumenti, riscopriremmo la funzione comunicativa, propria dell’arte, dei monumenti e il dialogo tra loro e la cittadinanza. Così le caratteristiche proprie della conservazione architettonica si tradurrebbero per i nostri “racconti di pietra” in “stratificazione additiva di significato” rispetto alla rifunzionalizzazione, “autonomia tecnica dell’intervento” per ciò che concerne la reversibilità e “rifiuto dell’intervento in maniera” per quel che riguarda la differenziazione tra il manufatto artistico storico e l’aggiunta contemporanea.
Di seguito si spiegherà ciò che si intende con le seguenti caratteristiche:
Stratificazione additiva di significato
Le nostre città sono il prodotto di diverse epoche e con loro delle diverse abitudini che si fanno materia nelle forme dei nostri centri abitati. La necessità di nuovi spazi, di nuove funzioni, di nuove prospettive, ha comportato nel tempo interventi architettonici volti a soddisfare quanto richiesto dalla committenza. I risultati di questa attività sono il prodotto stesso di molti nostri edifici storici che risultano essere il prodotto stratificato di varie aggiunte nel tempo.
Come l’architettura non è passiva ai cambiamenti della società, così non lo devono essere i monumenti. Nel tempo si è preferito effettivamente sostituire o rimuovere i monumenti ritenuti anacronistici, ma la visione che qui si propone è quella di aggiungere significato.
Ciò si può fare attraverso l’aggiunta al monumento di componenti o simboli significativi, capaci di trasmettere un significato aggiuntivo, sia positivo sia negativo, capace di restituire una visione complessa di un personaggio controverso, conservando tuttavia la memoria.
L’obiettivo della “stratificazione additiva di significato” è quindi quella di rompere la visione retorica di una narrazione, concedendo una restituzione più trasparente e articolata.
Appare chiaro come questo approccio rifiuti totalmente la cancellazione del personaggio poichè la damnatio memorie e l’oblio non porterebbero alcun insegnamento alla nostra società.
Autonomia tecnica dell’intervento
Aggiungere significato è possibile, ma è necessario evitare qualsiasi manomissione del manufatto storico che costituisce il monumento. Come scritto precedentemente la sensibilità contemporanea ci preclude, o quanto meno dovrebbe imporci, il rispetto di qualsiasi opera artistica del passato al di là del gusto personale o di assurdi pareri di inferiorità (come già storicamente successo in alcune epoche, basti pensare l’illuminismo nei confronti del medioevo e le successive ricostruzioni in maniera medievali a danni del barocco). Ciò ci porta a garantire l’interezza dell’opera e ad assicurare degli interventi additivi capaci di non compromettere l’elemento storico nella sua interezza.
Altro carattere legato all’autonomia tecnica dell’intervento è la già citata, per l’architettura, reversibilità. Progettare degli interventi reversibili, capaci di essere smontati e di riportare l’opera al suo stato precedente, garantirebbe il rispetto dell’opera stessa come prodotto artistico.
“Rifiuto dell’intervento in maniera”
Al fine della stratificazione additiva il rifiuto dell’intervento in maniera è volto a garantire la lettura dei diversi passaggi delle diverse epoche e, dunque, anche dei diversi valori che la società legge rispetto a un monumento. Falsificare un intervento contemporaneo con uno stile passatista è evitabile se non tramite una facile lettura di tipo cromatico o materico. Tuttavia essendo a oggi l’arte contemporanea direttamente comunicazione, dunque non più mezzo attraverso cui viene incanalato un messaggio, appare evidente come l’addizione artistico tramite il linguaggio dei nostri tempi sia più preferibile e immediato.
Una volta spiegate bene le caratteristiche proprie di questi interventi, si proverà successivamente a fare degli esempi pratici di come il monumento del passato può acquisire una significato attuale, garantendo tuttavia l’opera già presente all’interno della città ed aumentandone la portata significativa.
Si procederà con 3 esempi, dal meno invasivo al più invasivo e oggetto di discussioni.
La statua di Indro Montanelli e il monumento contro le violenze coloniali
Il primo caso, il meno invasivo dei tre, vuole risolvere il rapporto della statua di Indro Montanelli con la popolazione milanese. Il problema del monumento preso in esame è l’incompletezza che un monumento posto nel 2012 appare restituire di un personaggio complesso per il suo passato.
Il madamato fu una vicenda molto discussa già quando Indro Montanelli, grande giornalista italiano, era ancora in vita e negli ultimi cinque anni la polemica intorno alla statua si sono riaccese. L’obiettivo di questo intervento è risolvere l’incompletezza intorno alla statua tramite un’addizione di significato realizzata senza aggiungere nulla all’opera dello scultore Vito Tongiani, ma semplicemente prevedendo un’altra opera vicina in ricordo delle violenze perpetrate alla popolazione delle colonie italiane per opera del regio esercito.
L’idea è quella di pensare a una lastra metallica alta e larga almeno 4 metri nella quale sono affastellate diverse bambole eritree ed etiopi sempre in metallo grandi tra i 20 e i 30 centimetri. In centro alla lastra un foro rettangolare. La posizione di questa installazione è fondamentale: il foro infatti dovrà puntare verso l’immagine laterale o di spalle della statua di Indro Montanelli.
Il significato appare lampante: il muro che si alza ben sopra l’altezza di una persona, i diversi simboli dell’infanzia appesi alla lastra, soli e ammucchiati, e al centro uno squarcio verso uno dei protagonisti (la statua di Indro Montanelli) di un caso che ai tempi era solo uno di molti ma che in seguito fece scalpore.
Le due opere quella di Indro Montanelli (l’opera esistente) e il monumento in ricordo delle vittime delle violenze coloniali (la nuova proposta) lavorano in questo modo sinergicamente. L’una giustifica l’altra ed entrambe fanno parte del nostro passato, per cui la rimozione di una comporterebbe la perdita in parte di significato dell’altra.
Questo esempio è il meno invasivo perché non comporta modifiche del monumento preesistente e si limita ad aggiungerne un altro che potrebbe come il primo essere totalmente autonomo. La stratificazione additiva qui avviene senza aggiungere un livello fisico sulla statua presa in esame, ma addizionandone uno di significato. Entrambe le opere sono necessarie l’una all’altra e restituiscono una visione più complessa e sfaccettata del nostro passato, ricordando un personaggio della nostra storia o facendo riferimento a esso.
Obelisco Mussolini al foro italico o nuovo monumento alla partecipazione democratica
Il Foro Mussolini, progettato dall’architetto Enrico Del Debbio nel 1926 su indicazione dell’Opera Nazionale Balilla, si inserisce fra le numerose operazioni urbanistiche del regime volte a cambiare il volto dell’Italia del “nuovo”, e breve, impero. I progetti costituirono, come già in altri casi, delle occasioni di autocelebrazione e glorificazione del regime dittatoriale fascista e in particolare della figura di Mussolini, come scrive lo storico Vittorio Vidotto. A riprova di ciò fu l’innalzamento dell’omonimo obelisco, concluso prima della definizione del complesso architettonico, nonostante i diversi progetti di espansione in elaborazione. Il monumento, realizzato secondo i disegni di Costantino Costantini, consiste in un blocco marmoreo di 17,5 metri innalzato al centro del viale del foro italico, fino al 1943 “piazzale dell’Impero”, presenta scolpita le due parole “Dux” e “Mussolini”, rimaste ancora visibili dopo quasi cent’anni. L’obelisco dopo il 1945 acquisì un forte valore simbolico in quanto manufatto del ventennio fascista appena superato e in quanto pensato per la celebrazione del dittatore. Intorno al monumento vennero avanzate in tempi recenti diverse proposte, tra cui quella del 2015 dell’onorevole Laura Boldrini di rimozione della scritta “Dux” e quella di Emanuele Fiano del 2017 di rimuovere anche la scritta “Mussolini”.
Le proposte denotano una nuova sensibilità rispetto alle ultime vestigia del regime fascista. L’obelisco Mussolini riuscì, infatti, a superare l’ondata di interventi mirati all’eliminazione di simboli, scritte e statue del regime nell’immediato dopoguerra. Addirittura il PCI individuò nel 1948 il foro italico come luogo per la Festa de l’Unità nazionale, forse un’iniziativa simbolica di conquista degli spazi chiaramente identificati come “mussoliniani”, tant’è che è evidente il confronto in diverse foto tra la folla di sostenitori sopraggiunti per Togliatti e Longo, con lo sfondo punteggiato dalle statue marmoree proprie dello stile littorio.
È evidente come alcuni manufatti nel nuovo contesto repubblicano più che simboli nostalgici furono ricondotti a un immaginario anacronistico da “italietta con gli stivali”, superato dalla storico. Il vicino fallimento del ventennio fascista negava qualsiasi tentativo si salvaguardia dell’immaginario “littorio” nelle città, per cui gli elementi monumentali sopravvissuti acquisirono più il ruolo di “bottino di guerra” di un passato sconfitto all’interno di un’Italia in rapida trasformazione. Ciò motiva le numerose manifestazioni nei luoghi simbolo del fascismo, l’accostamento tra eventi democratici e spazi caratterizzati da una monumentalità totalitaria, la conferma di quel tentativo di riconquista dei luoghi del regime che nel 1948 venne immortalato nelle foto della Festa de l’Unità al Foro Italico.
In tutto ciò le proposte degli ultimi anni denotano una sempre maggiore preoccupazione per una rinvigorita nostalgia per il fascismo e un diverso atteggiamento delle forze politiche intorno ai monumenti: da parte della destra una volontà sempre più evidente di salvaguardia dei monumenti del ventennio come difesa identitaria della cultura politico-italiana, da parte della sinistra, sempre più allarmata del sentimento nostalgico e della formazione della classe dirigente della destra (non più di matrice popolare democratica ma di tipo ex-missina), l’intenzione di negare qualsiasi possibilità agiografica del regime, limitando la possibilità che questa possa essere rafforzata dai simboli materiali (le statue e i monumenti) ancora presenti sul territorio.
La proposta che avanziamo su l’obelisco Mussolini tende a mettere insieme tutti questi aspetti. La storia non deve essere dimenticata o rapidamente superata, ma perchè non ci siano strumentalizzazioni, è giusto che essa debba essere affrontata.
Per l’obelisco ciò che si propone è l’aggiunta di elementi che non intacchino il monumento, ma che riescano ad aggiungere un nuovo significato più profondo e contemporaneo. Degli interventi proposti questo è quello a metà tra quello invasivo, perchè si richiede di frapporre una nuova struttura vicinissima a quella storica, e quello meno invasivo, perchè l’obelisco non viene cambiato di posizione e l’aggiunta di progetto presuppone una totale reversibilità dell’intervento proposto.
L’idea è quello di ingabbiare con una struttura l’obelisco. La struttura garantisce una sua stabilità statica, per cui per quanto vicina al monumento non andrà a minacciarne la stabilità. All’interno di questa “gabbia” si andranno a inserire dei “raggi di luce”, ovvero degli assi in profilati tubolari luminosi, sorretti dalla struttura esterna che chiude l’obelisco , e che dovranno restituire l’idea di “trafiggere” l’obelisco. L’idea di questa stratificazione sul monumento si pone l’obiettivo di invertire totalmente il portato simbolico dell’obelisco Mussolini: da vestigia di un regime dittatoriale a nuovo simbolo di una comunità democratica.
La gabbia cubica infatti intorno al monumento ha proprio il compito di rompere la compattezza del blocco marmoreo, di negarne la forte staticità e di intrappolarla, facendo uscire la parte terminale oltre il limite della gabbia. Ciò restituisce un sentore di scomodità, un limite che non deve racchiudere il monumento, ma che lo deve intrappolare. La forma della gabbia, il cubo, deve avere una forma finita, autonoma, che non abbia bisogno dell’obelisco per risultare completa. Questa rappresenta una società democratica, con le sue divisioni dei poteri, le sue regole, le sue tutele che servono per evitare e bloccare qualsiasi possibilità di sopravvento del più forte o dell’uno (obelisco/Mussolini) sui molti. Il sistema dei raggi tubolari ha la funzione di rappresentare l’azione attiva che la società svolge per evitare il sopraggiungere di regimi non democratici, rappresentando la partecipazione attiva che è base fondante di ogni democrazia in salute.
Con queste aggiunte, in breve riportate, un monumento oggigiorno sempre più dibattuto e divisivo può essere rivestito di un nuovo valore simbolico, quello della partecipazione democratica in antitesi con l’origine dell’obelisco, conservando il manufatto storico e permettendo una analisi critica del passato del nostro Paese, rappresentato anche matericamente.
La statua del Bigio o il nuovo monumento all’antifascismo
Brescia, 1932, nella nuova piazza della Vittoria, progettata da Marcello Piacentini, si inaugura un colosso di 7 metri e mezzo in marmo di carrara scolpito da Arturo Dazzi. L’opera viene elogiata dallo stesso Mussolini come perfetta raffigurazione dell’era fascista e in quanto tale, una volta abbattuto il regime viene giustamente rimossa anche la statua.
L’intervento rispetto a questo monumento, ora assente dalla piazza, ripropone un suo inserimento cercando di sfruttare l’opera di pregio secondo la soprintendenza, cercando di dare nuovo valore e significato. L’operazione non è facile considerando il portato della statua che per la città di Brescia era uno dei simboli fascisti più iconici della città.
La proposta avanzata di seguito rappresenta quella più invasiva per un’opera di questo tipo, nonostante non ci siano aggiunte di nessun tipo. L’idea appare molto semplice, ovvero riproporre la statua del Bigio ma orizzontalmente, caduta, come se fosse appena stata abbattuta. La proposta non è di chi scrive ma fu avanzata dallo scultore Antony Mark David Gormley che per il completamento della piazza era stato chiamato a pensare cosa mettere al posto del famoso colosso.
L’idea fu rigettata ma per quanto desueta rispetta tutte le tre caratteristiche proposte precedentemente. Inoltre il messaggio comunicativo sarebbe chiaro: usare un monumento di un passato terribile per il nostro Paese, per garantirne una nuova lettura, permettendogli di essere portatore di nuovi valori, in questo caso l’antifascismo. Il simbolo della Brescia fascista abbattuto a terra, nonostante il gesto forte, risulterebbe fortemente significativo e permetterebbe di garantire la completezza dell’opera senza modifiche.
Non è la prima volta che il cambio di posizione cambia anche significato all’opera. Un esempio milanesissimo degli stessi anni del bigio fu “i morti di Bligny trasalirebbero” di Arturo Martini, pensata inizialmente come statua di un centometrista pronto a scattare e successivamente modificato per renderla più contemporaneo. La scelta in quel caso fu dello stesso artista, libero di decidere come meglio modificare la propria opera.
Nel caso del Bigio la libertà nel cambiarne la posizione è data dai forti motivi storici e dal significato che un riposizionamento sul posto come in origine porterebbe con sè.