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Cinque racconti brevi, brevissimi, sul femminismo e sull’8 marzo. Cinque racconti sulla necessità di una nuova mentalità nella nostra società. Le ragazze e i ragazzi del circolo Adda Martesana hanno deciso aprirsi, raccontando quei frammenti della loro vita che hanno avuto al centro una riflessione sul concetto di femminismo o sulla necessità di una nuova mentalità. Tra voragini nel proprio nucleo familiare all’incutere paura per il solo camminare vicino ad una persona, senza accorgersene.

Buna lettura. E buon 8 marzo.

Voragine

Di Giulia Dargenio

Io in quella parola non mi riconosco. Scuote la testa, quasi offeso. Strabuzzo gli occhi, lo guardo di sbieco e provo a non esprimere nessuna emozione. «Papà, perché non ti riconosci in quella parola?» «Perché ovviamente le donne devono essere rispettate in quanto esseri umani. Non vedo la necessità di differenziare. Perché ti devi definire femminista se lotti per i diritti? Non esiste un’altra parola? Qualcosa che possa chiamare anche gli uomini alla causa?» Mentre scrivo queste righe, come Pollicino raccolgo le briciole che quella conversazione notturna con mio padre ha lasciato. Quella conversazione per certi versi mi ha lasciato sorpresa, ma tristemente anche un po’ delusa. Io e mio padre, uomo laureato e solitamente d’accordo con me su argomenti politici, non riusciva a capire la mia necessità di fargli accettare quella parola. Quasi lo considerasse un insulto, qualcosa di troppo vecchio e a suo parere «troppo divisivo».

Al momento non riuscivo a capire. Nonostante le mie lunghissime spiegazioni sull’origine del termine e sullo sviluppo del movimento globale, passando per le suffragette, Audrey Lorde, Angela Davis, Radicalesbians, referendum su divorzio e aborto e chi più ne ha più ne metta, mio padre non era convinto. Nonostante lui riconosca pienamente che le donne sono discriminate ogni giorno in quanto donne e che fenomeni come il femminicidio non siano casi isolati di raptus, ma bensì qualcosa di sistematico, quella parola non riesce ad accettarla.

E tra me e lui si crea una voragine. Proprio lì a mezzanotte, nella nostra cucina, della nostra casa, dove sono cresciuta e vivo tutt’ora. Una distanza quasi incolmabile perché lui quella parola la associa a qualcosa di estremo, divisivo e fondamentalmente troppo lontano dalla sua esperienza per essere qualcosa per cui lui possa attivamente lottare.

Tuttavia, io continuerò la mia lotta. Per fargli capire che sì, lui è femminista. Perché a lungo andare ha capito che la lotta che sua madre ha combattuto per sopravvivere nel mondo del lavoro dominato dagli uomini negli anni ‘60, la lotta che sua moglie e sua sorella hanno combattuto negli anni ‘80 e ‘90 e la lotta di sua figlia nel nuovo millennio, sono storie profondamente diverse, ma legate da un unico filo conduttore.

Oggi gli ho detto di non regalarmi nessuna mimosa. Quei due euro che spenderebbe per quello, vorrei che li donasse ad un centro antiviolenza, oppure una casa per donne vittime di violenza. Lui ha annuito, perché sa benissimo di cosa parlo. E io sono profondamente convinta che lotterò finché quella distanza non sarà colmata. Lui è al mio fianco, perché il patriarcato si abbatte insieme, solo se tutt* parteciperemo al cambiamento.

 

Sottomissione

di Diego Canaletti

Era l’estate dei miei 18 anni, ma posso assicurarvi che di quella maggiore età non sapevo che farmene, perché quella località della Romagna la odiavo a 18 anni così come l’avevo odiata quando avevo 17, 16, 15 e così via.

Quel pomeriggio avevo deciso di andare in spiaggia, evento abbastanza raro visto il rapporto che ho con il mare ed ero sdraiato, rigorosamente all’ombra, ad ascoltare la musica ad un volume non troppo alto, perché insomma, evviva Madonna ma il mio udito di più.

Ascoltare la musica a basso volume ha senz’altro il pro di poter ascoltare le conversazioni degli altri, cosa che mi piace molto quando gli altri parlano di me. È sempre un piacere irrompere nelle conversazioni altrui puntualizzando qualcosa che han detto sul mio conto e vedere le loro facce tra il sorpreso e l’imbarazzato, concedetemelo. Al contempo, però, ascoltare la musica a basso volume ha quel contro che ti fa ascoltare le conversazioni altrui. Pure quelle di cui farei volentieri a meno.

E così mia mamma e mio padre erano sotto l’ombrellone degli amici di famiglia e io, che di guardare gli adulti giocare a carte voglia non ne avevo, ero rimasto a curare l’ombra del mio ombrellone, così che nessuno potesse portarla via. E fu in quel momento che sentii quella conversazione.

Nell’ombrellone a fianco c’erano due donne che parlavano tra loro. Non ci badai molto fino a che l’argomento non si spostò su un presunto caso di adulterio che aveva riguardato una coppia che, da come avevo capito, entrambe conoscevano.

«Beh, ma è vero che non dormivano più nello stesso letto?» aveva domandato una delle due signore.

L’altra aveva annuito, «Così mi ha detto. Certo che se poi non hai rapporti è ovvio che ti tradisca, l’uomo non lo puoi tenere.»

L’uomo non lo puoi tenere. Mi accorsi che sentendo quelle parole mi ero incantato a guardare quelle due persone parlare, scioccato e inorridito. Mi voltai dall’altro lato alzando un pochino di più il volume del mio lettore mp3, avevo ascoltato troppo.

L’uomo-non-lo-puoi-tenere, dissero, come se fosse una bestia incapace di gestire i propri istinti ma come, soprattutto, se la donna non avesse il diritto di sottrarsi ad un rapporto sessuale senza sentirsi in colpa.

Ecco, quell’immagine mi diede la nausea allora e me la dà tutt’oggi che i 18 li ho superati da un po’. Da allora mi sono domandato quanto sia comune questo sentimento di sottomissione delle donne nei confronti dei loro partner, di persone con cui condividono il tetto, il letto, il divano, persino l’asse del gabinetto. Donne che si sentono inferiori perché tali.

Io so che cambiare una forma mentis errata è un processo lungo e difficile. Me ne accorgo dalla difficoltà che ho nel non utilizzare l’articolo determinativo davanti al cognome di una donna, ad esempio. Ma se il cambiamento è difficile, non approfittare di quella mentalità è invece molto più semplice.

Ecco, evitiamo di approfittarci delle persone. Guardarsi allo specchio senza avere l’istinto di sputarci sopra è una sensazione impagabile.

 

“Mettersi nei panni di”

Di Eleonora Fiorillo

Mettersi nei panni di”. Se si cerca su internet questo modo di dire, appaiono magicamente siti che provano a spiegare all’utente medio come diventare più empatici.

Mettersi nei panni di” è anche il modo che utilizzo per spiegare il femminismo e la rabbia, l’ingiustizia, il patriarcato.

Immagino situazioni capovolte, mondi utopici e li presento sotto forma di parole al mio interlocutore. Se quest’ultimo poi è il mio ragazzo, tendenzialmente si becca un fiume di parole sbrodolate in cui man mano si accendono esempi di ogni tipo. Mi ingarbuglio e mi sembra di non uscirne mai.

Ad esempio, una mattina, mentre facevo colazione, ho acceso SkyTg24. Si parlava della crisi di governo, le ministre Bonetti e Bellanova erano appena state ritirate – come dei panni stesi al sole che rimessi dentro l’armadio – e quella mattina, a dibattere dell’accaduto, in studio c’erano solo uomini. Opinionisti, giornalisti, scrittori, figure politiche. Inizialmente non ci ho badato, ma quando mi sono focalizzata sullo schermo, mi sono immaginata d’un tratto uno studio composto solo di donne. O quanto meno, donne e uomini in egual numero. Sogno?

La stessa cosa mi è accaduta l’altra sera, durante il Festival di Sanremo. Certo, per la Rai – e non solo – ci sarebbe da aprire un archivio tra maschilismo e narrazioni sbagliate che riescono a svilire qualsiasi lotta femminista (alcuni esempi recenti: Mina Settembre, Lolita Lobosco, Che Dio ci aiuti). Tornando a noi, c’era questo siparietto di Fiorello e Amadeus in cui cantavano circondati da ballerine oggettivamente molto belle e sensuali. “Chissà quando vedremo due conduttrici al Festival circondate da boni” ho scritto per messaggio ad alcuni amici e amiche. Già, chissà quando vedremo conduttrici, e non vallette. Segretarie e presidenti, e non vice. Utopia?

Ho lavorato un anno in un’azienda il cui board era composto da 20 uomini. Uno di loro di appena 24 anni. “Ha iniziato umilmente e lavorava senza lamentarsi”, disse il mio responsabile, prendendolo ad esempio, quando ho avuto il coraggio di richiedere un aumento dello stipendio tra parole smozzicate e gran imbarazzo, dopo aver ricevuto un incarico che non concerneva con quello per cui ero stata assunta.

Donne competenti in azienda ce n’erano. Ma mi sono sempre chiesta cosa non avessero in più rispetto ai loro colleghi uomini tanto da non essere prese in considerazione neanche per una posizione di potere.

Ma sappiamo bene che il problema non è mai essere abbastanza competenti: non dobbiamo essere per forza dei geni per arrivare da qualche parte. Dovremmo, semplicemente, essere riconosciute.

Mettersi nei panni di” è il modo che utilizzo per spiegare il femminismo.

Mettiti nei nostri panni, come ti sentiresti se esistesse una ricorrenza sancita appositamente per ricordare al mondo di non violarti, di rispettarti e garantirti gli stessi diritti del sesso opposto?

I fiori non profumerebbero più così tanto.

 

Camminare e angosciare

Di Alessandro Galbiati

Cosa ne sanno i maschi delle paure, delle sensazioni delle donne?

Alcune cose non riusciamo a coglierle pienamente, possiamo limitarci a conoscerne sommariamente i connotati. E nonostante questa conoscenza limitata, scarna, che sfiora soltanto l’immaginazione riesce a suscitare in me una sensazione di empatia. Quasi angoscia.

Mi capita spesso di camminare per strada a passo sostenuto. Lo faccio per mia natura e anche perché mi ritrovo ad essere in ritardo ad alcuni miei appuntamenti. Com’è normale che sia, capita che davanti a me ci sia qualcuno che cammina in modo più lento.

Cammino sovrappensiero, fin quando la distanza tra me e questa persona diminuisce sempre di più e mi rendo conto che quest’ultima è una ragazza. Insomma, mi avvicino a lei come una di quelle presenze dei film horror. E proprio come in un film dell’orrore comincio ad avvertire la sua preoccupazione nel sentire qualcuno arrivare da dietro. In quel momento accade sempre una cosa: la ragazza si volta. Per un solo istante, poi torna a guardare davanti a sé.

Sento che sto diventando una minaccia per lei: non sa chi sono, dove sto andando, quali siano le mie intenzioni. Molto spesso quello che succede è che tiri fuori il telefono, in un tentativo di avere pronta un’ancora di salvezza dovesse succedere qualcosa.

Ma se lei è sul baratro della preoccupazione, io non posso non sentirmi in colpa per l’angoscia che le sto generando. E allora accelero, sorpasso o, se posso, prendo la traversa e percorro la strada parallela.

Ecco, qui penso di aver capito molto. Ma non tutto.

Vorrei fermare quella ragazza e dirle: «ehi, stai tranquilla».

Ma non posso.

Ma vorrei dirle che so. E che mi dispiace enormemente.

 

C’è fame di femminismo

Di Valentina Bianchessi

Fin da quando sono piccola ho sempre percepito il femminismo come qualcosa di lontano.

Lunedì mattina, entro in classe, all’ordine del giorno c’è un tema da scrivere: “ieri e oggi: parla del cambiamento del ruolo della donna dall’inizio del XX secolo sino ad oggi”.

Tra passaggi di fogli protocollo, penne cariche e dizionari mi chiedo cosa sia per me il femminismo.

Certo, ho studiato che il femminismo è “un movimento politico, sociale e culturale nato nell’800 che ha rivendicato e rivendica pari diritti e dignità tra donne e uomini”. Questa è la definizione standard, consultabile pressoché ovunque. Ma cos’è davvero? Perché se ne parla solo a scuola? E perché gli si dà una connotazione “storica” quando ogni giorno viviamo e vediamo episodi che gridano la necessità di un nuovo modo di pensare che potrebbe portare il nome di femminismo?

Basta scorrere tra i commenti di un post pro-choice per vedere quanto abbiamo bisogno che sia un presente e un futuro appoggiato e sentito da tutti.

Non basta lo sdegno verso i femminicidi, non basta il mazzo di mimose, non basta una porta aperta e un “prima le signore”. Serve una rivoluzione che deve portare il nome di tutti. Una rivoluzione che vada oltre l’8 marzo. Con la speranza di vedere meno verifiche e più prime pagine sul femminismo, auguro a tutti un otto marzo di cambiamento.

Redazione GD

Redazione GD

La Redazione è lo spazio di approfondimento e confronto pubblico dei Giovani Democratici di Milano Metropolitana!

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